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Cesare Ricotti Magnani, nato a Borgo Lavezzaro il 30 giugno 1822 e morto a Novara il 5 agosto 1917, fu una figura di spicco della storia militare e politica italiana del XIX secolo. Uscito nel 1840 dall’Accademia militare di Torino, partecipò attivamente alle campagne del 1848 e 1849, distinguendosi per valore e ricevendo una promozione a capitano per merito di guerra dopo essere stato ferito a Peschiera. Nella guerra di Crimea ottenne la promozione a maggiore per scelta.
Durante la seconda guerra d’indipendenza, nel 1859, fu capo di Stato maggiore della 3ª divisione, confermandosi stratega abile e preparato. Successivamente, promosso colonnello, assunse la direzione della Scuola militare di Novara. Con il grado di maggior generale comandò la brigata Aosta nella campagna del 1860-61, e da generale divisionario partecipò alla campagna del 1866. Ricoprì la carica di ministro della Guerra dal 1870 al 1876 e, nuovamente, nel 1885 dopo essere passato nella riserva. Nel 1877 guidò il IV gruppo d’armata.
Deputato per sei legislature e nominato senatore nel 1890, fu decorato con il Collare dell’Ordine della SS. Annunziata, massima onorificenza del Regno d’Italia. Il suo contributo più duraturo fu l’Ordinamento Ricotti del 1873, che riformò radicalmente il sistema di reclutamento dell’esercito stabilito nel 1854, introducendo un esercito di seconda linea noto come milizia mobile e accogliendo le proposte del capitano Giuseppe Perrucchetti per la creazione delle prime compagnie alpine. Ricotti fu anche autore di opere tecniche e storiche tra cui Nozioni sull’artiglieria da campagna (Torino, 1851) e Osservazioni al libro del gen. R. Cadorna, La liberazione di Roma nel 1870 (Novara, 1889).
Le stellette militari, piccole stelle a cinque punte applicate sul bavero e sul colletto delle uniformi, rappresentano uno dei simboli più iconici e riconoscibili delle Forze Armate italiane. La loro storia risale all’epoca post-unitaria, ma affonda le radici in tradizioni militari ben più antiche. Già prima dell’Unità d’Italia, negli eserciti europei e negli Stati preunitari italiani, si usavano stelle di forme diverse, come quelle a sei o otto punte, per distinguere i gradi degli ufficiali. In particolare, gli ufficiali d’ordinanza dei sovrani e dei principi italiani indossavano spesso una stella a sei punte sul bavero dell’uniforme.
Con la nascita del Regno d’Italia e l’adozione della Stella d’Italia come simbolo nazionale, si scelse la pentalfa — la stella a cinque punte — come nuovo emblema araldico e distintivo militare, segnando così l’inizio di un processo di unificazione simbolica tra le diverse componenti dell’esercito. Tra giugno e ottobre del 1871, le stellette a cinque punte vennero ufficialmente introdotte per gli ufficiali di fanteria, sostituendo i fregi precedenti e codificando un nuovo linguaggio visivo per indicare l’appartenenza all’Esercito nazionale.
L’adozione delle stellette fu progressivamente estesa ad altri corpi, tra cui lo Stato Maggiore, i Bersaglieri, l’artiglieria, il Genio militare e, infine, anche alla cavalleria. Un regio decreto del 2 settembre 1871 stabilì che gli ufficiali di cavalleria dovessero indossare una stella a cinque punte sul berretto, con al centro il numero del reggimento e sormontata dalla corona reale. Nello stesso anno, nel mese di ottobre, fu regolamentato anche l’uso delle stellette dorate per i generali, distinguendone visivamente il rango.
Il processo si concluse ufficialmente con il regio decreto n. 571 del 13 dicembre 1871, firmato dal ministro della Guerra Cesare Ricotti-Magnani, che impose l’uso obbligatorio delle stellette a cinque punte a tutto il personale soggetto alla giurisdizione militare, inclusi i membri della Regia Marina. L’articolo 1 del decreto sanciva l’obbligo di indossare le stellette sul bavero dell’uniforme, consacrandole come simbolo universale dell’identità militare italiana.
Anche il Corpo Militare Volontario della Croce Rossa Italiana adottò le stellette, affiancando alla forma classica un disco bianco centrale con la Croce Rossa, a rappresentare l’identità umanitaria e la neutralità operativa del Corpo. Le origini di questa integrazione risalgono al 1º giugno 1866, quando, durante la terza guerra d’indipendenza, il Ministro della Guerra del Regno d’Italia assoggettò alla disciplina militare il personale delle “Squadriglie di Soccorso” del Comitato milanese, poi divenuto Associazione Italiana della Croce Rossa.
Il personale chiamato in servizio in base al disposto dell’articolo 5 del regio decreto-legge 12 febbraio 1930, n. 84, deve portare sul bavero della giubba, della mantellina e del pastrano le stellette a cinque punte di cui al regio decreto 14 luglio 1907, n. 556. Questo obbligo simboleggia la soggezione alla giurisdizione militare, come stabilito dagli articoli 523 del codice penale militare e 362 del codice penale militare marittimo.
Inoltre, l’ispettore nazionale del Corpo militare della Croce Rossa Italiana, prescelto fra i colonnelli in servizio, è nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro della difesa, su designazione del Presidente nazionale, ai sensi dell’articolo 73 del regio decreto 10 febbraio 1936, n. 484, e successive modificazioni, a conferma della rilevanza istituzionale e della natura militare del Corpo.
Oggi, le stellette a cinque punte non sono solo un segno distintivo delle Forze Armate, ma incarnano il legame profondo tra tradizione e spirito di servizio. Anche nel contesto della Croce Rossa, esse richiamano visivamente i valori della neutralità, del soccorso e dell’impegno volontario, in tempo di pace così come in situazioni operative. Con la loro forma semplice ma densa di significato, continuano a evocare l’eredità simbolica della Stella d’Italia, cuore identitario della nazione.
Roberto Marchetti
Fonte: wikipedia Foto: lostiledeglieroi.it, parma.bologna.repubblica.it
La pistola a tamburo nota ufficialmente come “Pistola a rotazione modello 1874”, ma più comunemente conosciuta con il nome dei suoi ideatori, “Chamelot-Delvigne Mod. 1874”, rappresenta uno dei capitoli più significativi nella storia delle armi corte militari dell’Ottocento e del primo Novecento, con una longevità d’impiego che attraversa quasi un secolo. L’arma nacque dall’ingegno dello svizzero J. Chamelot e del francese Henri-Gustave Delvigne (1800-1876), che svilupparono il progetto originario nel 1871, affidandone successivamente la produzione alla fabbrica d’armi belga “Pirlot Frères” di Liegi. Il modello riscosse un immediato successo, adottato in prima istanza dall’esercito svizzero e in seguito dall’esercito francese, che ne avviò la produzione interna tramite la prestigiosa “Manufacture d’armes de Saint-Étienne” (MAS). La sua introduzione nel Regio Esercito italiano avvenne poco dopo, in un’epoca di progressiva modernizzazione degli arsenali militari nazionali. La “Officina Metallurgica Francesco Glisenti” e la “Regia Fabbrica d’Armi di Brescia” furono incaricate della produzione sul suolo italiano, segno dell’importanza strategica attribuita all’arma. L’introduzione ufficiale nella dotazione dell’esercito fu sancita dalla circolare n. 165 del 14 dicembre 1874, che dispose la sostituzione graduale dei precedenti revolver a spillo modello 1861 Lefaucheux. Il modello 1874 fu quindi distribuito ai reparti italiani fino al 1888, data che segna anche il periodo in cui cominciò ad affermarsi il revolver ideato da Carlo Bodeo, il quale rappresentava un aggiornamento tecnico e funzionale del precedente Chamelot-Delvigne. Tuttavia, nonostante l’introduzione del nuovo modello, il revolver 1874 rimase in servizio per un periodo sorprendentemente lungo: venne impiegato nelle campagne coloniali italiane, nella repressione del brigantaggio e durante la Prima Guerra Mondiale, dove trovò utilizzo tra le truppe ausiliarie, in cavalleria e nelle unità di seconda linea. La longevità dell’arma si deve tanto alla solidità del progetto quanto alla robustezza dei materiali e alla semplicità del meccanismo, che ne facilitarono la manutenzione e ne garantirono l’affidabilità anche in condizioni avverse. La sua presenza è documentata anche durante la Seconda Guerra Mondiale, dove, complice la scarsità di armi moderne, fu utilizzata tanto dalle forze della Repubblica Sociale Italiana quanto dai gruppi partigiani. In tempi di pace, il revolver trovò infine un’ulteriore applicazione nei corpi di polizia municipale italiani, con un servizio che si protrasse fino al 1962. Dal punto di vista tecnico, l’arma si presenta con un’impugnatura in legno di noce zigrinato, completa di coccia con anello portacorreggiolo, e una struttura in acciaio fuso a incastellatura chiusa che integra completamente il tamburo, garantendo maggiore robustezza e protezione al meccanismo interno. Il tamburo, con capacità di sei colpi calibro 10.35 mm, viene caricato dalla parte posteriore tramite uno sportello sul lato destro, secondo il sistema Abadie. L’estrattore ad asta, collocato anch’esso sul fianco destro, consente la rimozione del tamburo per le operazioni di pulizia. La canna è ottagonale all’esterno, dotata di quattro rigature destrorse all’interno, con mirino fisso vicino alla volata e tacca di mira integrata nel castello. Il meccanismo di sparo è a doppia azione con due posizioni del cane: una per la sicurezza, l’altra per il fuoco. Il numero di matricola è punzonato sopra il calcio, mentre sul lato sinistro del telaio, davanti al tamburo, è inciso il marchio del fabbricante con la data di produzione. Questo tipo di revolver, appartenente alla tradizione della produzione bresciana d’armi, rappresenta un punto di incontro tra la cultura ingegneristica francese, l’eccellenza belga nella costruzione d’armi leggere e la consolidata tradizione armiera italiana. Con una lunghezza totale di 31 cm, un’altezza di 15 cm e uno spessore di 4.5 cm, la “Chamelot-Delvigne Mod. 1874” costituisce un pezzo fondamentale della storia militare e industriale italiana, non solo per la sua efficacia tecnica, ma anche per il contesto storico e politico in cui fu utilizzata e per l’ampiezza del suo impiego che attraversò guerre mondiali, epoche monarchiche e repubblicane, trasformazioni sociali e militari.
Il fucile descritto è un esemplare del celebre Modello 1891, più noto come “Modello 91” o semplicemente “’91”, arma simbolo della fanteria italiana tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo. Realizzato dalla Fabbrica d’Armi dell’Esercito di Terni (FAET), presenta una canna in acciaio fusa con precisione e montata su una cassa lignea sagomata, completata da una cinghia in cuoio concia e modellata per consentirne il trasporto a tracolla, secondo l’uso militare del tempo. La forma mistilinea dell’arma riflette l’attenzione all’ergonomia e alla funzionalità, mentre le misure – una lunghezza complessiva di 128,5 cm (circa 158,3 cm con baionetta montata) – indicano un’arma pensata per l’impiego a lunga gittata, adatta alla guerra di trincea e ai combattimenti a distanza. Degno di nota è l’alzo a quadrante installato sulla canna, che permette la regolazione della mira da 600 a 2000 metri, con tacche intermedie ogni ettometro, oltre a due mire fisse preimpostate a 300 e 450 metri: tale dispositivo era espressione della sofisticazione tecnica che contraddistinse il progetto originario del fucile, volto a garantire precisione di tiro anche in condizioni operative difficili. Il manubrio di caricamento e il meccanismo di sparo, in questo esemplare, risultano rimossi, probabilmente a fini museali o di disattivazione. Sotto la volata è visibile l’innesto a “T” per l’applicazione della baionetta, un elemento standardizzato per le armi bianche in dotazione all’epoca. L’arma reca impresse matricole sia sulla canna che sul calcio, assieme al marchio della FAET, segno di un’attenta tracciabilità produttiva da parte dell’apparato industriale militare italiano. Adottato ufficialmente dal Regio Esercito Italiano il 5 marzo 1892, il Modello 91 rappresenta una svolta cruciale nella storia dell’armamento militare nazionale: progettato in risposta a un bando pubblico per dotare la fanteria di un fucile a ripetizione moderno, l’arma si distingueva per l’utilizzo del calibro 6,5 mm, soluzione allora innovativa che garantiva un peso contenuto della cartuccia e, di conseguenza, la possibilità per il fante di portare un maggior numero di colpi. Sebbene inizialmente tale calibro suscitasse perplessità – soprattutto per problemi di logoramento della canna in prossimità della camera di scoppio e per la tendenza del proiettile a frantumarsi – tali difetti vennero superati attraverso l’introduzione di una rigatura a quattro righe destrorse e l’adozione di proiettili in piombo rivestiti da una lega di rame e nichel. L’arma è conosciuta a livello internazionale con il nome composito di “Mannlicher-Carcano-Parravicino”, che riflette la complessa genesi progettuale: Carcano, ufficiale del Regio Esercito, sviluppò l’otturatore ispirandosi a quello tedesco Mauser; Mannlicher è associato alla concezione del serbatoio e del caricatore a pacchetto, anche se ricerche recenti condotte da Alessandro Bison attribuirebbero la paternità del serbatoio al capitano Pietro Bertoldo, già noto per importanti modifiche apportate al precedente fucile “Vetterli”; Parravicino, infine, fu il presidente della commissione che sovrintese al progetto. Il fucile utilizzava un sistema di alimentazione a pacchetto che consentiva di inserire sei cartucce simultaneamente in un serbatoio centrale fisso e aperto, mediante un caricatore perpendicolare alla canna: tale sistema, rapido ed efficiente, rappresentava un’innovazione per l’epoca e contribuiva alla celerità d’uso durante le fasi concitate del combattimento. La popolarità e la diffusione capillare del Modello 91 nel corso della Prima Guerra Mondiale e nei conflitti successivi ne fecero un oggetto familiare ai soldati italiani, al punto che nel lessico popolare e dialettale l’arma era conosciuta semplicemente come “skiop”, termine colloquiale che ne esprimeva la pervasività nella vita militare del periodo. In sintesi, il Modello 91 rappresenta un caposaldo della storia militare italiana, frutto della transizione tecnologica e dottrinale che caratterizzò la fine dell’Ottocento, incarnando lo sforzo dell’industria nazionale nel modernizzare l’equipaggiamento della fanteria secondo le esigenze di un’epoca in rapido mutamento.
Il fucile descritto è un esemplare significativo della storia armiera italiana post-unitaria, riconducibile alla produzione dell’Arsenale di Brescia, importante realtà industriale operante dal 1812 al 1945 e protagonista della modernizzazione bellica del Regno d’Italia. L’arma, realizzata mediante tecniche di fusione per le parti metalliche in acciaio e ottone e sagomatura del legno per la struttura portante, misura 135 cm di lunghezza, con un’altezza di 13 cm e uno spessore di 7 cm, ed è un testimone dell’evoluzione armiera tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Originariamente camerata per il munizionamento 10,35 × 47 mm R, tipico del modello “Vetterli Mod. 1870”, l’arma in esame venne successivamente ricalibrata per ospitare proiettili da 6,5 mm, probabilmente per standardizzarne l’uso con le munizioni del successivo “Carcano Mod. 91“, adottato a partire dal 1891 come nuovo fucile d’ordinanza del Regio Esercito. Attualmente l’arma risulta inefficiente, essendo stata resa inoffensiva mediante colata di piombo all’interno della canna, procedura comune per la disattivazione definitiva di armi militari dismesse. Dal punto di vista morfologico, presenta una canna in acciaio ancorata longitudinalmente a un fusto ligneo che si prolunga posteriormente nel calcio, elemento essenziale per la stabilità dell’arma durante il tiro, concepito per appoggiarsi alla spalla del tiratore. Sono presenti due passanti metallici inferiori, posizionati sul calcio e al centro del copricanna, funzionali all’aggancio di una cinghia in cuoio per il trasporto. Sulla superficie della canna si rinvengono punzonature identificative della fabbrica e dell’anno di produzione, elementi utili per la datazione e per la tracciabilità storica dell’esemplare. L’ideazione originaria dell’arma è da attribuirsi all’ingegnere svizzero Johann-Friedrich Vetterli (1822-1882), autore del progetto dell’omonimo fucile “Vetterli Mod. 1869” impiegato inizialmente dall’esercito elvetico. In Italia, il modello venne adottato come “Fucile Vetterli Mod. 1870”, versione monocolpo in calibro 10,35 mm, destinata a sostituire progressivamente il più obsoleto “Carcano Mod. 67 ad ago”, ancora in uso nel Regio Esercito all’indomani dell’Unità d’Italia. La scelta di adottare il sistema Vetterli da parte degli arsenali italiani rispondeva all’esigenza di modernizzare l’equipaggiamento militare del neonato Stato unitario, dotando la fanteria di un’arma più moderna ed efficiente. Tuttavia, il sistema monocolpo si rivelò presto inadatto alle mutate esigenze del campo di battaglia europeo, in cui gli altri eserciti avevano già iniziato a dotarsi di armi a ripetizione, in grado di garantire una superiore cadenza di fuoco. L’inadeguatezza del fucile monocolpo italiano spinse a una serie di modifiche migliorative, dapprima adottate dalla Regia Marina con il modello “Vetterli-Bertoldo Mod. 1870/82”, sviluppato dal capitano Giovanni Bertoldo. In seguito, fu il Regio Esercito ad adottare una versione a ripetizione progettata dal capitano Giuseppe Vitali (1845-1921), il “Vetterli-Vitali Mod. 1870/87”, reso tale mediante l’integrazione al blocco di culatta di un serbatoio-caricatore da quattro colpi, soluzione che permise un notevole miglioramento in termini di rapidità di fuoco e operatività. L’adozione di questa versione rappresentò un passaggio intermedio cruciale nell’evoluzione delle armi individuali in dotazione alle truppe italiane. Le successive versioni migliorative, come il “Vetterli-Vitali Mod. 1870/90 Ferracciù” e il “Vetterli-Vitali Mod. 1870/87/16”, testimoniano l’ulteriore tentativo di aggiornare l’arma alle esigenze del tempo, fino a quando il Vetterli non venne definitivamente sostituito dal “Carcano Mod. 91”, che sarebbe rimasto in servizio fino alla fine della Seconda guerra mondiale. La cultura armiera bresciana, già nota per la produzione di qualità in età preunitaria, conferma in quest’arma la propria rilevanza nel contesto della produzione bellica italiana ottocentesca. La denominazione popolare “skiop”, termine dialettale che identifica comunemente il fucile, sottolinea l’immediata riconoscibilità dell’oggetto anche nel linguaggio comune e nella memoria collettiva delle popolazioni locali.
Il Savoia Marchetti S.M. 82 rappresenta un esempio eccezionale di ingegneria aeronautica italiana, sviluppato nei tardi anni trenta come trimotore, monoplano ad ala media, dotato di motori Alfa Romeo e realizzato in un totale di 875 esemplari, configurato per offrire versatilità operativa grazie alla possibilità di essere impiegato sia come aereo da trasporto pesante che come bombardiere; le sue prestazioni erano arricchite da un sistema di armamento difensivo standard composto da quattro mitragliatrici, di cui una dorsale da 12,7 mm e le altre da 7,7 mm, che garantivano una protezione adeguata in scenari di combattimento. Il primo volo del modello da trasporto avvenne il 30 ottobre 1939, mentre la versione armata fece il suo debutto il 5 febbraio 1940, dimostrando sin da subito la capacità di operare con elevata affidabilità, sia nel trasporto di carichi ingombranti e fino a 40 uomini equipaggiati oppure 28 paracadutisti, sia nella versione bombardiera che poteva impiegare un carico bellico di 4.000 kg di bombe o spezzoni. Conosciuto con il soprannome di “Marsupiale”, il velivolo venne utilizzato in un ampio ventaglio di operazioni durante il conflitto, divenendo l’unico mezzo in grado di effettuare operazioni di bombardamento a lungo raggio per la Regia Aeronautica, tanto da essere impiegato per attacchi strategici su basi e infrastrutture chiave, come quelle situate a Gibilterra e ad Alessandria d’Egitto. Un’operazione particolarmente memorabile si svolse nella notte tra il 18 e il 19 ottobre 1940, quando una formazione di quattro SM.82 del 41° Gruppo Autonomo, guidata dal Tenente Colonnello Ettore Muti, decollò dall’aeroporto di Gadurrà con l’intento di colpire i pozzi petroliferi di Manama nella penisola arabica, missione caratterizzata dall’aggiunta di 3000 litri di carburante extra e dall’impiego di bombe da 15 kg a frammentazione, con il risultato di attaccare un obiettivo strategico di rifornimento per le armate britanniche, operazione che possedeva anche un forte valore propagandistico essendo mirata contro obiettivi ritenuti inaccessibili; durante il rientro, dopo aver seguito una rotta per il rifornimento in Eritrea e modificato il percorso a causa degli attacchi sulle basi di Massaua e dei dintorni, i velivoli atterrarono a Zula, dimostrando l’elevata autonomia e capacità di adattamento del velivolo in situazioni di emergenza. Parallelamente alle missioni offensive, il S.M. 82 svolse un ruolo fondamentale nel trasporto di rifornimenti e personale verso i territori dell’Impero in Africa Orientale, diventando l’unico mezzo in grado di raggiungere quelle aree e contribuendo in maniera decisiva alle operazioni di rifornimento durante l’occupazione italo-tedesca della Tunisia, dove fu utilizzato non solo per la consegna di materiali alle truppe dell’Asse, ma anche per l’evacuazione di personale militare e civile, nonostante la costante minaccia di aerei da caccia alleati in un contesto dominato dalla superiorità aerea anglo-americana. Il rischio elevato delle missioni, associato alla presenza di forze nemiche, portò all’abbattimento di un numero significativo di esemplari, con circa cento velivoli superstiti alla data dell’armistizio; successivamente, cinquantina di SM.82 continuarono a prestare servizio per l’Aeronautica Nazionale Repubblicana, impiegati principalmente nelle operazioni sul fronte orientale, mentre una trentina di esemplari furono assegnati allo Stormo Notturno della Cobelligerante Italiana, fornendo supporto alle truppe impegnate nei Balcani, mentre la Luftwaffe integrò la produzione successiva di questi velivoli, utilizzandoli con prevalenza sul fronte orientale e successivamente nel nord della Germania negli ultimi mesi del conflitto.
Il paracadute Salvator D.39 rappresenta uno degli sviluppi più significativi nel campo della sicurezza aerea militare italiana nel periodo tra le due guerre mondiali. Progettato dall’ingegnere Romolo Salvator, il D.39 fu un modello innovativo di paracadute a zaino destinato all’impiego da parte degli aviatori dell’Aeronautica del Regno d’Italia. La sua introduzione avvenne nel contesto di un’evoluzione concettuale e tecnica della sicurezza del personale di volo, in un’epoca in cui la rapidità di uscita dall’aeromobile e l’affidabilità dell’apertura automatica o manuale del paracadute erano fattori cruciali per la sopravvivenza. Il Salvator D.39 fu brevettato e approvato nel 1939, da cui trae il nome, e venne adottato dall’Aeronautica Militare come equipaggiamento standard per i piloti e, in alcuni casi, anche per i membri degli equipaggi imbarcati. A differenza di modelli precedenti più ingombranti o meno affidabili, il D.39 introduceva una struttura pieghevole compatta con un contenitore posteriore, da indossare come uno zaino. Il paracadute era realizzato in seta, materiale all’epoca considerato tra i migliori per leggerezza e resistenza, con funi in canapa cerata o successivamente in rayon. La cupola del paracadute era a profilo emisferico, con una superficie sufficiente per garantire una discesa relativamente dolce anche da quote non elevate. Uno degli aspetti più avanzati del Salvator D.39 era il sistema di apertura semi-automatica, che si attivava mediante una fune statica collegata all’aereo: in caso di espulsione o salto, la fune strappava il contenitore e liberava il paracadute, riducendo il rischio di errori umani nei momenti critici. Tuttavia, era possibile anche l’apertura manuale tramite maniglia, per scenari in cui l’uscita fosse autonoma o pianificata. Il progetto D.39 venne ampiamente testato presso il Centro Sperimentale di Volo di Guidonia e venne valutato come altamente affidabile rispetto ai precedenti modelli italiani e ad alcuni esemplari stranieri. La produzione fu affidata a diverse ditte italiane specializzate in materiali aeronautici, tra cui la Salmoiraghi e la S.A.F.A.C., e il paracadute entrò in dotazione proprio negli anni in cui l’Italia si stava preparando alla Seconda Guerra Mondiale. Il D.39 fu largamente utilizzato durante il conflitto, anche se con alcune modifiche successive volte a migliorarne l’ergonomia e a ridurre il peso complessivo del sistema. È importante notare che, sebbene il Salvator D.39 fosse principalmente destinato all’impiego aeronautico, venne successivamente adattato per le esigenze dei primi reparti di paracadutisti italiani, che stavano nascendo proprio alla fine degli anni Trenta. Le esperienze maturate con il D.39 furono fondamentali anche per lo sviluppo dei successivi modelli da assalto e da truppa, impiegati nel corso delle operazioni della Divisione Folgore e di altri reparti d’élite. In termini storici, il Salvator D.39 si colloca come uno dei primi esempi di progettazione italiana autonoma nel settore dei paracadute militari, dopo anni di dipendenza da brevetti e soluzioni straniere, e segnò l’inizio di una tradizione che proseguirà anche nel dopoguerra con modelli sempre più sofisticati. Il contributo del D.39 fu dunque determinante per la transizione dell’Italia verso una moderna dottrina del volo militare, in cui la salvezza del pilota cominciava ad essere considerata una priorità tecnica e strategica.
Roberto Marchetti
Fonti:
Ministero dell'Aeronautica del Regno d'Italia, Manuali tecnici e regolamenti sull’uso del paracadute individuale (1939–1943), Archivio Storico dell’Aeronautica Militare Italiana.
Centro Sperimentale di Volo di Guidonia, Relazioni tecniche sui test di paracadute D.39, documenti interni conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato.
"Il paracadute in Italia. Dalle origini alla Seconda Guerra Mondiale", di Giuseppe Ciampaglia, Rivista Aeronautica, edizione speciale 1987.
Salvo De Luca, Storia e tecnologia del paracadute militare italiano (1915–1945), Edizioni Ufficio Storico SME, Roma, 2004.
Museo Storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle, esposizioni e schede tecniche consultabili in loco e online.
Archivio Storico Salmoiraghi, documentazione industriale sulla produzione di dispositivi aeronautici, incluse specifiche tecniche del modello D.39.
Federico Zampieri, Ali e Tela. Equipaggiamenti e materiali dell’Aeronautica Italiana 1935–1945, Gaspari Editore, 2012.
Foto: paracadute usato dai paracadutisti dell'aria di Castel Benito e da quelli delle scuola militare di Tarquinia. anpdibari.it
Giuseppe Baudoin: Pioniere e Padre Spirituale dei Paracadutisti Militari Italiani
Il Generale di Brigata Aerea Giuseppe Baudoin resta una figura emblematica e indimenticabile nella storia militare italiana, un uomo che ha saputo unire la disciplina ferrea con la passione per il volo e l’attenzione paterna verso i propri uomini. La sua vita, costellata di coraggio e dedizione, incarna i valori di lealtà, sacrificio e amore per la Patria, che ancora oggi ispirano chiunque abbia avuto l’onore di conoscerlo o di essere stato da lui guidato.
Un Maestro e un Mentore
Già durante il 32° Corso AA.SS. della Scuola Sottufficiali della Guardia di Finanza al Lido di Ostia, la figura del Generale Baudoin si presentava come un punto di riferimento fondamentale. In quegli anni, la presenza di Baudoin nelle frequenti domenicali visite presso la caserma lasciava un segno indelebile nei giovani militari, che vedevano in lui un esempio vivente di dedizione e integrità. La sua curiosità e la sua volontà di conoscere nel dettaglio la vita dei suoi interlocutori non facevano che rafforzare il legame umano e autentico che s’instaurava, ben oltre il rigido protocollo militare.
Il Padre Spirituale dei Paracadutisti
La storia di Baudoin è strettamente legata alla nascita e allo sviluppo del paracadutismo militare in Italia. Fu lui, infatti, il fondatore della Regia Scuola Nazionale di paracadutismo presso l’aeroporto di Tarquinia, incarico affidatogli nel 1937 quando ancora, con il grado di Colonnello, aveva già accumulato una notevole esperienza sotto le armi. Con la stessa passione e rigore che lo contraddistinguevano, Baudoin instaurò un clima di rispetto, disciplina e affetto tra i suoi collaboratori, trasmettendo non solo le tecniche del paracadutismo, ma anche una profonda cultura del sacrificio e della dedizione verso il proprio paese.
Una Vita di Esempio e di Storie
Le narrazioni del Generale Baudoin, spesso raccontate durante le serate trascorse in compagnia, si trasformavano in veri e propri racconti epici di coraggio e di resistenza. Egli ricordava con orgoglio il comando delle Forze Aeree in Corsica nel 1942 e l’8 settembre 1943, quando, pur trovandosi al comando, non abbandonò mai i suoi uomini di fronte alle proposte dei nazisti, rimanendo fedele al giuramento prestato al Re. Questi episodi, tra gli altri, rafforzarono la sua immagine di guerriero impavido e di uomo saldo nei principi, definendolo da molti come il “carabiniere della Chiesa” per la sua ferma posizione nel difendere la tradizione anche in ambito religioso.
Un Carattere Multiforme
Al di là della sua carriera militare, Baudoin era un uomo di ampie culture e passioni. Conduceva una vita spartana, dedicandosi alla musica, alla lettura e alla conversazione con amici e colleghi, sempre pronto a condividere aneddoti e riflessioni che illuminavano chiunque lo ascoltasse. La sua abitudine di alzarsi per ascoltare l’Inno Nazionale durante la chiusura dei programmi radiofonici e televisivi divenne un simbolo del soldato che portava in ogni istante il dovere e l’orgoglio per la sua nazione.
L’Eredità di un Eroe
La scomparsa del Generale Baudoin, avvenuta il 4 marzo 1963, lasciò un vuoto incolmabile nei cuori di chi lo aveva conosciuto e ammirato. Per molti, lui rappresentava non solo un maestro militare, ma anche un padre spirituale, un faro di valori in un periodo di grande fermento storico. Oggi, il suo ricordo è mantenuto vivo attraverso cimeli e testimonianze: tra questi, il “cifrato speciale” autografo di Italo Balbo per il Duce e lettere che testimoniano l’affetto e il rispetto reciproco, insieme a un pugnale di rame, simbolo di un passato fatto di lotte e sacrifici.
Giuseppe Baudoin rimane dunque un esempio luminoso di dedizione alla patria e di amore per i valori più autentici. La sua vita e la sua opera continuano a ispirare nuove generazioni di militari e cittadini, ricordando a tutti che, anche nei momenti di difficoltà, la lealtà, il coraggio e il senso del dovere possono illuminare il cammino verso un futuro migliore.
La costituzione dei reparti paracadutisti italiani affonda le sue radici nell’esperienza maturata in Libia, ma fu solo con la legge del 1937 che vennero poste le prime basi ufficiali, assegnando alla Regia Aeronautica la responsabilità della creazione delle Scuole di Paracadutismo. La prima concreta disposizione operativa arrivò con la circolare del 28 agosto 1939 che designava Tarquinia come sede della prima Scuola Nazionale di Paracadutismo. La scelta di Tarquinia, sebbene supportata da fattori logistici come la vicinanza al mare, una rete viaria e ferroviaria efficiente e un’area pianeggiante, risultava poco giustificata dal punto di vista infrastrutturale, disponendo soltanto di un piccolo aeroporto con una modesta aviorimessa e una palazzina in muratura. Nonostante ciò, il 15 ottobre 1939 venne ufficialmente istituita la Regia Scuola Paracadutisti dell’Aeronautica, posta sotto il comando del Colonnello Giuseppe Baudoin, figura centrale per la nascita e l’affermazione del paracadutismo militare italiano. La gestione tecnico-amministrativa spettava alla Regia Aeronautica, mentre l’addestramento e l’impiego tattico erano di competenza dello Stato Maggiore del Regio Esercito e la disciplina era affidata al Comando della In Zona Aerea Territoriale. La struttura organizzativa della scuola includeva il Comando Scuola con due ufficiali superiori, uno per l’Aeronautica e uno per l’Esercito, oltre a diversi reparti: Volo, Istruzione Allievi, Servizi, Tecnico Manutenzione, Logistico-Amministrativo, Studi ed Esperienze e Sanitario. I primi mesi furono dedicati all’allestimento della sede, alla costruzione di infrastrutture e all’approvvigionamento di materiali, compresa una torre di lancio alta 52 metri donata dai Vigili del Fuoco del Genio Militare di Villa Glori a Roma. Il personale fu selezionato secondo le direttive della circolare del 1939, che prevedeva il reclutamento di ufficiali e sottufficiali in servizio permanente o raffermati provenienti da varie Armi del Regio Esercito. Il primo corso per istruttori iniziò il 28 marzo 1940 con un programma estremamente articolato: addestramento fisico generale e specifico, esercitazioni di tiro, orientamento, tecniche di comunicazione, difesa antigas, pronto soccorso e naturalmente tutte le attività connesse al paracadutismo, compresi lanci individuali e collettivi, e manovre simulate di conquista di basi aeree nemiche. Il corso, inizialmente previsto in otto mesi, fu ridotto a tre per esigenze belliche e alla fine di giugno 36 dei 57 partecipanti vennero brevettati. Il 10 luglio 1940 iniziarono i corsi per le reclute, selezionate in base a rigidi criteri fisici e morali. L’addestramento si articolava in due fasi: una fisico-lancistica e una tecnico-operativa, comprendente lanci da altezze progressive, per culminare in un addestramento tattico conclusivo con esercitazioni a fuoco. Tuttavia, tra il 25 e il 27 luglio 1940, quattro tragici incidenti causati dal malfunzionamento del paracadute Salvator D.39 costrinsero alla sospensione delle attività di lancio. Il Reparto Studi ed Esperienze della scuola riuscì a sviluppare rapidamente un nuovo modello denominato IFA1I SP, che, sebbene non consentisse manovre in volo, garantiva un elevato livello di sicurezza e fu approvato per l’uso operativo a partire dall’ottobre 1940. L’attività riprese così con pieno slancio, raggiungendo un’intensità notevole negli anni 1941 e 1942. Il Reparto Volo venne rafforzato con l’introduzione dei trimotori SIAI Marchetti SM 82 e il personale dei ripiegatori superò le cento unità, consentendo di eseguire quotidianamente da 500 a 1600 lanci. Il Reparto Studi ed Esperienze continuava nel frattempo a sviluppare equipaggiamenti sempre più specifici, come uniformi, stivaletti da lancio, elmetti, tute mimetiche, buffetterie, contenitori per rifornimenti e perfino una motocicletta aviolanciabile chiamata Volugrafo. L’intensa attività addestrativa e il progressivo incremento del numero di uomini da formare rese necessaria una graduale delocalizzazione verso Viterbo, dotata di migliori strutture aeroportuali. Tuttavia, solo il 25 febbraio 1943 venne ufficialmente istituita la Regia Scuola Paracadutisti di Viterbo, affidata al Colonnello Renato di Jorio. Con il deteriorarsi della situazione bellica e il precipitare degli eventi, le scuole furono costrette a cessare le loro attività: quella di Tarquinia fu chiusa il 10 luglio 1943, mentre Viterbo proseguì fino all’armistizio dell’8 settembre.
Il cosiddetto Calendario Pisano, o stile dell’Incarnazione al modo pisano, rappresentava un particolare sistema di computo del tempo in uso a Pisa e in altre zone dell’attuale Toscana fino alla metà del XVIII secolo. La peculiarità di questo calendario risiedeva nella scelta della data di inizio dell’anno, fissata al 25 marzo, giorno in cui si celebra l’Annunciazione della Vergine Maria secondo il calendario liturgico. Tale data anticipava di nove mesi e sette giorni l’inizio dell’anno rispetto allo “stile moderno” o “stile della Circoncisione”, che fissa al 1º gennaio il primo giorno dell’anno. Questa modalità di calcolo del tempo era radicata nella cultura pisana e contraddistingueva l’identità della città e del suo territorio.
L’abolizione del Calendario Pisano avvenne per decreto del granduca Francesco Stefano di Lorena il 20 novembre del 1749. Con tale provvedimento si stabilì che in tutto il territorio toscano il nuovo anno dovesse iniziare il 1º gennaio successivo, adeguandosi così al calendario gregoriano già in uso nel resto d’Europa. In conseguenza di questa decisione, lo Stato pisano, comprendente approssimativamente le attuali province di Pisa e Livorno, dovette conformarsi alle nuove disposizioni, abbandonando definitivamente l’antico sistema.
Nonostante la sua abolizione, il Calendario Pisano ha continuato a suscitare interesse storico e culturale. Verso la fine degli anni ’80 del Novecento, la Parte di Mezzogiorno del Gioco del Ponte si fece promotrice della rievocazione delle celebrazioni legate a questo evento. In seguito, anche l’Associazione Amici del Gioco del Ponte contribuì significativamente alla conservazione e alla promozione di questa tradizione, assumendo il ruolo di ente coordinatore delle associazioni impegnate nelle attività culturali connesse al Capodanno Pisano. A partire dal 2000, l’organizzazione delle celebrazioni è stata affidata al Comune e alla Provincia di Pisa, conferendo ufficialità all’evento e garantendone la continuità nel panorama delle manifestazioni cittadine.
Un aspetto peculiare legato all’inizio dell’Anno Pisano è la sua scansione mediante un orologio solare. Nel Duomo di Pisa, un raggio di sole entrava da una finestra detta Aurea e colpiva una zona prossima all’altare maggiore esattamente a mezzogiorno, segnando così l’inizio del nuovo anno secondo la tradizione pisana. Tuttavia, a causa delle modifiche architettoniche apportate nel XVII secolo, questo meccanismo perse la sua efficacia. Nel corso del XIX e XX secolo, fu ripristinato sfruttando una differente finestra e stabilendo come bersaglio una mensolina a forma di uovo, situata su un pilastro vicino al luogo in cui venne riassemblato il pergamo di Giovanni Pisano nel 1926.
Le celebrazioni per l’inizio dell’Anno Pisano si aprono con un corteo storico della Repubblica Marinara, a cui prendono parte anche i gonfaloni dei comuni pisani, conferendo solennità e fascino all’evento. Segue una breve cerimonia religiosa, che si conclude esattamente a mezzogiorno, momento in cui l’orologio solare segna l’ingresso nell’anno nuovo secondo la tradizione pisana. Questa rievocazione rappresenta non solo un omaggio al passato, ma anche un’occasione per riaffermare l’identità storica di Pisa e mantenere viva la memoria di un sistema cronologico che per secoli ha regolato la vita della città e del suo territorio.