A129

A129

Foto: militarypedia.it

L’AW-129 Mangusta, noto originariamente come A129 e formalmente designato AW-129 dal 2007, rappresenta una delle più significative esperienze italiane nel campo degli elicotteri d’attacco e di scorta, nato da una precisa esigenza dell’Esercito Italiano e sviluppato da Agusta (oggi parte del gruppo Leonardo, ex Finmeccanica) a partire dalla fine degli anni ’70; il programma ha preso avvio nel 1978 in un contesto europeo in cui diversi Paesi valutavano la necessità di velivoli dedicati all’attacco, separando così il ruolo dalla tradizionale funzione di trasporto truppe, e si è concretizzato in una piattaforma leggera biposto il cui primo prototipo solcò i cieli il 15 settembre 1983, data che segna l’inizio di una lunga e articolata storia di sviluppo, impiego operativo e successive trasformazioni. L’idea iniziale di riprendere il design dell’A109 e modificarlo venne ben presto abbandonata in favore di un progetto originale che sfociò nella costruzione di cinque prototipi: il primo volò a Cascina Costa il 15 settembre 1983 e il quinto nel marzo 1986; dalle prove emerse un velivolo progettato per il combattimento anticarro, biposto con pilota e cannoniere, motorizzato con un turbina Rolls-Royce Gem 2 Mk1004D, rotore a quattro pale e una struttura realizzata in alluminio rivestita da materiali compositi, concepita per offrire una resistenza complessiva, compresi motore e rotore, ai proiettili fino al calibro 12,7 mm. Dopo la fase sperimentale l’Esercito Italiano ordinò inizialmente 66 esemplari, un quantitativo successivamente ridotto prima a 60 e poi, dopo il 1992, a 45; i ritardi nelle consegne del primo lotto, costituito da cinque velivoli, furono dovuti a problemi nello sviluppo del sistema ottico per il puntamento dei missili, e le prime consegne effettive avvennero soltanto nel 1990. L’armamento originario della versione basica comprendeva missili anticarro BGM-71 TOW e razziere da 81 mm, con la possibilità, già prevista nelle successive evoluzioni, di impiegare anche missili Hellfire in alternativa ai TOW; il Mangusta fu inoltre dotato di opzioni tattiche come cannoncini, pod per mitragliatrici e sofisticati sistemi di contromisure man mano che la piattaforma si evolveva. A partire dal sedicesimo esemplare prodotto furono introdotte modifiche importanti: rotori ripiegabili, illuminazione compatibile con visori notturni, nuovi sistemi di comunicazione e d’avvertimento radar e laser, jammer per contrastare emissioni radar e infrarosse, chaff e flares e serbatoi supplementari, segni chiari dell’intenzione di rendere il Mangusta più adatto all’operatività contemporanea e alla sopravvivenza in ambienti ostili. L’esperienza operativa del Mangusta confermò le potenzialità e insieme i limiti del progetto originario: il dispiegamento nel contingente NATO in Somalia tra il 1992 e il 1994, che vide l’impiego di tre A129 più altri quattro imbarcati sulla portaerei Garibaldi, dimostrò la capacità del velivolo di operare in condizioni climatiche difficili e su teatri caratterizzati da elevata usura ambientale; tuttavia l’impiego in missioni di stabilizzazione e controinsurrezione rivelò che l’architettura iniziale, pensata primariamente per il contrasto corazzato, non rispondeva pienamente alle nuove minacce asimmetriche, evidenziando la necessità di dotare il velivolo di armamenti più versatili, di mitragliatrici, di sistemi ottici per ricognizione, di navigazione GPS e inerziale e di filtri anti­sabbia per proteggere i motori. Le operazioni successive in Albania (1997), nella Repubblica di Macedonia e in Kosovo (tra 1998 e 1999) e più tardi gli impieghi in Iraq (2007) e in Afghanistan (dal 2007) confermarono la poliedricità di impiego del Mangusta ma allo stesso tempo spinsero a una serie di modernizzazioni e a sviluppi di varianti nate per rispondere tanto alle esigenze dell’Esercito Italiano quanto a mercati esteri interessati a versioni con diversa capacità propulsiva, avionica e di carico. Contestualmente agli sviluppi operativi, dall’orizzonte industriale e progettuale sorsero numerose varianti sperimentali e proposte di esportazione: il progetto congiunto europeo A129 LAH Tonal, stipulato con memorandum d’intesa del 1986 tra Italia, Regno Unito, Paesi Bassi e Spagna, mirava a realizzare un Light Attack Helicopter con motorizzazione RTM.332, rotore e carrello nuovi, sensori avanzati e armamento più potente, ma la ritirata di Regno Unito e Paesi Bassi nel 1990 in favore dell’AH-64 Apache pose fine al programma Tonal; altre varianti rimaste su carta o sperimentali furono l’A139 LTH (o LBH secondo alcune fonti), pensata per capacità di trasporto fino a otto soldati, e l’A129 Gannet (o A129N) navalizzata con radar sul muso e missili antinave, nessuna delle quali raggiunse lo stadio di prototipo operativo benché documenti e allegati tecnici sull’argomento siano circolati e attestino il grado di attività progettuale. Sul fronte delle motorizzazioni e della versione destinata all’esportazione, l’A129 International, presentata ufficialmente il 9 gennaio 1995, fu la sintesi più ambiziosa: equipaggiata con due turboalberi Allison-Garrett LHTEC T800 (o LHTEC LT800 nelle varie fasi di progetto), trasmissione rinforzata, rotore a cinque pale, cannoncino a tre canne TM-197B da 20 mm (prodotta da Oto Breda su licenza General Dynamics), maggiore capacità di carburante e avionica migliorata; questa versione era abilitata al lancio di missili AGM-114L Hellfire, oltre a TOW e razziere da 71 e 80 mm, e poteva impiegare FIM-92 Stinger per autodifesa aria-aria; l’aumento della massa da circa 4,1 t a 5 t andava di pari passo con un notevole incremento delle prestazioni, in particolare della velocità massima (fino a 280 km/h nella documentazione dell’epoca) e del rateo di salita, segnando quanto fosse possibile ottenere con l’adozione di motori più potenti e di soluzioni aerodinamiche avanzate. Sul piano nazionale l’evoluzione che ha inciso in maniera più profonda sulla flotta italiana è stata però la trasformazione dalla versione originaria CBT (Combat o Combattimento, talvolta indicata come A129C) alla successiva AW-129D (Delta) o ARH-129D, processo iniziato con sperimentazioni e aggiornamenti che hanno riguardato armamento, sensori e sistemi d’arma: la versione CBT, sviluppata progressivamente a partire dagli anni ’90 e adottata dall’Aviazione dell’Esercito come EES (Elicottero da Esplorazione e Scorta), incorporava il rotore a cinque pale e l’installazione opzionale della torretta con cannoncino Oto Melara TM-197B da 20 mm (con scorta di munizioni), sistemi ottici FLIR, contromisure EADS AN/AAR-60, nuove unità GPS e sistemi inerziali, avionica avanzata e la possibilità di impiegare missili Hellfire e Stinger; la scelta di aggiornare i velivoli non fu lineare: negli anni ’90 furono costruiti 30 dei 45 Mangusta inizialmente richiesti e nel 1999 l’Esercito chiese che gli ultimi 15 velivoli fossero prodotti già nella variante CBT, con ulteriori contratti nel 2001 per ammodernare i restanti esemplari e aggiornare la flotta fino al 2008. L’impiego in teatri come l’Iraq nel 2005-2006 (Operazione Antica Babilonia) e l’Afghanistan dal 2007 diede ulteriore impulso all’adeguamento della dotazione, ma fu la sperimentazione avviata nel 2014 dal 5° Reggimento AVES “Rigel”, Task Force “Fenice”, a sancire la transizione più significativa: l’AW-129D (Delta), concepito come Aerial Reconnaissance Helicopter, introdusse il sistema OTSWS (Observation, Targeting and Spike Weapon System) integrato con il sensore TOP LITE della Rafael e in particolare l’adozione dei missili Spike-ER (gittata circa 8 km), sostituendo i TOW e implicando modifiche hardware e software tali da rendere la versione D incompatibile con gli armamenti precedenti; il nuovo sistema ottico TOP LITE offre un campo operativo di acquisizione obiettivi molto più esteso (fino a 20 km nella documentazione tecnica) e ha modificato la disposizione dei comandi di tiro (con il copilota che utilizza due hand grip anziché il joystick per il TOW), mostrando come l’evoluzione del Mangusta sia stata guidata non soltanto dalla necessità di maggiore potenza offensiva ma anche di sensori e capacità di ricognizione avanzata. Parallelamente, la cooperazione industriale internazionale portò allo sviluppo del T129 ATAK per la Turchia: a settembre 2007 la Turchia firmò per 51 AW-129 destinati al programma ATAK con assemblaggio finale presso la TAI (Turkish Aerospace Industries) e subappalti ad AgustaWestland e Aselsan; il T129, il cui primo volo avvenne il 28 settembre 2009 a Vergiate, è basato sull’AW-129 ma monta motori LHTEC T800 più potenti e avionica/sistemi ottici di origine turca (tra cui l’ASELFLIR 300-T) adattati alle necessità climatiche e operative della regione, tanto da essere sottoposto a valutazioni presso basi come quella pakistana di Multan nel 2016, dove venne testato fino a 14.000 piedi in condizioni estreme di temperatura. Nel panorama delle proposte anche l’A129ASH (Advanced Scout Helicopter) venne promossa per l’Air Cavalry statunitense, ma non raggiunse lo stadio di prototipo; molte altre proposte e sperimentazioni restarono a vario titolo su carta o in fase di mock-up, coerentemente con un mercato internazionale caratterizzato da preferenze strategiche e da un’alta soglia di concorrenza tecnologica. Una traccia interessante dello sviluppo del Mangusta è infine rappresentata dall’evoluzione dei “musi” e dei sistemi di puntamento: analisi tecniche mostrano una progressione che va dal Tipo 1 sperimentale (muso liscio con alloggiamento per il visore TOW ma senza apparato), al Tipo 2 con visore Hughes M65 per il TOW (originariamente impiegato sugli AH-1 Cobra e montato in Italia a partire dal 1976 sugli A-109 TOW), al Tipo 3 con M65 e PNVS/FLIR, fino al Tipo 4–5–7 che costituiscono il configurazione operativa standard adottata per gli esemplari consegnati all’Esercito Italiano (con il sistema di puntamento svedese SAAB HeliTOW e alloggiamento per il PNVS), mentre il Tipo 6 rimase sperimentale per la International con il cannoncino gatling TM-197B; il Tipo 8 caratterizza la versione turca T129 con l’integrazione Aselsan ASELFLIR 300-T, e il Tipo 9 corrisponde al muso dell’AH-129D/ARH-129D con la torretta optronica Rafael TOPLITE III, adottata sugli esemplari italiani della versione D. Gli operatori del Mangusta includono in primo luogo l’Italia, dove l’elicottero è in dotazione all’Aviazione dell’Esercito (EES) con il 5° Reggimento AVES “Rigel” (Casarsa della Delizia, PN) e il 7° Reggimento AVES “Vega” (Rimini); la flotta nazionale è composta da circa 60 esemplari AW-129, di cui 48 operativi e con un processo di trasformazione in corso che ha previsto l’aggiornamento di 32 velivoli dallo standard C al D, mentre 16 AW-129CBT sono stati destinati a ruoli addestrativi e non saranno aggiornati allo standard D. La Turchia figura come altro operatore significativo tramite la versione locale T129 ATAK. Il Mangusta ha quindi accumulato un lungo elenco di impieghi esteri in missioni internazionali e nazionali, tra cui Algeria/Angola (dati operativi variabili nelle fonti), Albania (1997), Repubblica di Macedonia e Kosovo (tra 1998 e 2000), Somalia (1992-1994), Iraq (2007) e Afghanistan (a partire dal 2007), esperienza che ha influenzato la traiettoria evolutiva del progetto, orientandolo verso una crescente capacità di ricognizione, protezione e precisione di fuoco piuttosto che al mero attacco anticarro per il quale era nato; infine, nella programmazione delle forze italiane la dismissione graduale degli AW-129 era prevista a partire dal 2020, indicazione quest’ultima che testimonia il naturale ciclo di vita di una piattaforma che —pur avendo dato prova di elevata adattabilità e di significative innovazioni tecniche— si trova a confrontarsi con nuove generazioni di elicotteri e con mutati scenari operativi e tecnologici.

     Roberto Marchetti

Fonte: militarypedia.it

VCC-1 “Camillino”

VCC-1 “Camillino”

Foto: wikipedia.org

VCC-1 “Camillino” – Veicolo corazzato da combattimento italiano

Categoria: Veicoli corazzati da trasporto truppe (APC)
Produttore: OTO Melara
Periodo: Anni ’70 – oggi

Il VCC-1 “Camillino” è un veicolo corazzato da combattimento (APC) sviluppato in Italia dalla OTO Melara come evoluzione del cingolato statunitense M113.
Il progetto nacque con l’obiettivo di fornire all’Esercito Italiano un mezzo più protetto e funzionale per il trasporto della fanteria meccanizzata, mantenendo la collaudata base meccanica del modello americano.

Sviluppo e contesto
Negli anni Settanta, l’Esercito Italiano evidenziò i limiti dell’M113 nel combattimento di prima linea, in particolare la scarsa protezione e la limitata capacità offensiva.
OTO Melara intervenne sul progetto introducendo modifiche strutturali quali l’aggiunta di piastre d’acciaio, l’inclinazione delle fiancate posteriori e l’installazione di feritoie di tiro.
Questi accorgimenti migliorarono la protezione balistica e la capacità di combattimento del personale trasportato, ma ridussero la capienza interna da 11–12 a 7 fanti.

Caratteristiche tecniche
Struttura e protezione
Il VCC-1 mantiene lo scafo in lega di alluminio dell’M113, con spessori variabili fra 25 e 32 mm, rinforzato da piastre d’acciaio da 6 mm applicate su fiancate e parte frontale.
L’inclinazione delle superfici laterali, stimata intorno ai 25 gradi, migliora la resistenza ai colpi di piccolo calibro e la probabilità di rimbalzo dei proiettili.
Lo spostamento dei serbatoi di carburante sui lati del portellone posteriore riduce i rischi di incendio interno in caso di esplosione di mine, pur rendendoli più esposti al fuoco esterno.

Propulsione e mobilità
Il veicolo è dotato di un motore diesel a 6 cilindri da circa 210–220 cavalli, derivato dalle ultime versioni dell’M113.
L’aumento di peso dovuto ai rinforzi riduce leggermente le prestazioni complessive rispetto al modello originale.
La velocità massima raggiunge circa 64 km/h, con un’autonomia di circa 450 chilometri.

Armamento
L’armamento principale consiste in una mitragliatrice Browning M2HB calibro 12,7 mm montata su una postazione superiore protetta da piastre d’acciaio da 10 mm.
Questa soluzione offre un buon compromesso fra protezione e visibilità per il mitragliere.
All’interno del vano truppe sono presenti feritoie laterali con visori blindati, che consentono ai fanti di aprire il fuoco dall’interno del veicolo.

Dati tecnici principali
Tipo: Veicolo corazzato da trasporto truppe (APC)
Equipaggio: 2 + 7 fanti
Lunghezza: 5,04 metri
Larghezza: 2,68 metri
Altezza: 2,08 metri
Peso: 9,1 tonnellate (vuoto) – 11,6 tonnellate (a pieno carico)
Motore: Diesel 6 cilindri – 210 CV
Velocità massima: 64 km/h
Autonomia: 450 km
Corazzatura: 25–32 mm + 6 mm di acciaio aggiuntivo
Armamento principale: 1 Browning M2 da 12,7 mm

Varianti e impiego operativo
Oltre alla versione base, OTO Melara sviluppò il VCC-2, caratterizzato da fiancate posteriori verticali e da minori modifiche strutturali, che permettevano una capacità di trasporto leggermente superiore.
Una versione anticarro, equipaggiata con lanciatori TOW su base M901 ITV, fu esportata in circa 200 esemplari all’Arabia Saudita.

L’Esercito Italiano adottò circa 600 VCC-1 e realizzò ulteriori conversioni di M113 in configurazione VCC-2.
I mezzi equipaggiarono le brigate meccanizzate e corazzate fino all’arrivo dei più moderni VCC-80 “Dardo”.
Alcuni esemplari sono stati successivamente ceduti a forze armate estere, tra cui l’Ucraina, nell’ambito di programmi di assistenza militare.

Valutazione complessiva
Il VCC-1 rappresentò un miglioramento significativo rispetto all’M113, offrendo maggiore protezione, ergonomia e capacità di sopravvivenza.
Nonostante ciò, la sua concezione rimase quella di un trasporto truppe corazzato (APC) piuttosto che di un vero veicolo da combattimento per la fanteria (IFV).
Con l’evoluzione delle dottrine meccanizzate e l’introduzione del VCC-80 Dardo, il “Camillino” ha progressivamente assunto ruoli secondari o di supporto, rimanendo comunque una tappa fondamentale nello sviluppo dei mezzi corazzati italiani.

    Roberto Marchetti

Fonti:
OTO Melara, documentazione tecnica M113A1/A2
Stato Maggiore dell’Esercito
MilitaryFactory
Wikipedia (it/en)
Studi storici su veicoli corazzati italiani

Battaglia del checkpoint Pasta

Battaglia del checkpoint Pasta

La «Battaglia del pastificio», talvolta chiamata anche «battaglia del checkpoint Pasta», si svolse il 2 luglio 1993 a Mogadiscio ed è rimasta nella memoria militare e pubblica italiana come il primo scontro a fuoco in cui furono impiegati militari dell’Esercito Italiano dalla fine della Seconda guerra mondiale, uno scontro che, per intensità, complessità e conseguenze politiche e umane, merita un’analisi attenta e multilivello che integri ricostruzione operativa, dinamiche locali e ricadute simboliche e commemorative. L’azione ebbe luogo nel quartiere di Haliwaa, a nord di Mogadiscio, durante l’operazione denominata Canguro 11 disposta dal Comando ITALFOR: due colonne meccanizzate italiane, la «Alfa» proveniente dalla zona del porto vecchio e la «Bravo» proveniente da Balad, presidio italiano a circa venti chilometri dalla capitale, effettuarono un rastrellamento di un’area di circa 400 × 700 metri compresa fra i checkpoint Ferro e Pasta; alcuni obiettivi di ricerca armi erano localizzati nei pressi di un pastificio abbandonato della Barilla, accanto al quale, sull’incrocio fra via Imperiale e la Strada 21 Ottobre, era stato costituito il posto di blocco denominato «Pasta». Al termine delle operazioni di rastrellamento le colonne ripresero il rientro verso le basi, ma la situazione esplose rapidamente in una sequenza di disordini su vasta scala che coinvolsero largamente la popolazione locale e, secondo diverse ricostruzioni, videro l’impiego di tiratori scelti: la colonna Bravo, che in quel momento si trovava nei pressi del pastificio lungo via Imperiale, intervenne per supportare le forze di polizia somale che stavano perdendo il controllo dell’area. I miliziani somali, enucleati nella narrazione italiana come appartenenti alle forze fedeli al generale Mohammed Farah Aidid o comunque legati alle strutture paramilitari denominate Mooryaan, predisposero imboscate e barricate che ben presto immobilizzarono mezzi blindati italiani (fra cui VCC-1 «Camillino» in dotazione alla XV Compagnia «Diavoli Neri» del 186º Reggimento paracadutisti), mentre altre arterie di fuga venivano occluse con barricate e i combattenti sparavano anche da posizioni sopraelevate, dai tetti delle abitazioni.
Il fuoco anticarro immobilizzò veicoli e causò i primi feriti: in una di queste prime fasi cadde il paracadutista Pasquale Baccaro, colpito alla gamba da un razzo, mentre furono gravemente feriti il sergente maggiore Giampiero Monti (addome) e il paracadutista Massimiliano Zaniolo (mano). Per soccorrere i mezzi e gli uomini in difficoltà fu deciso l’intervento della colonna Alfa, quasi alla base, sostenuta anche da assetti aerei tra cui elicotteri d’attacco A129 Mangusta e mezzi da trasporto Bell AB-205. La dinamica tattica emerse come un classico assalto urbano contro convogli e punti di blocco: i blindati italiani cercarono di fornire protezione con il fuoco delle mitragliatrici mentre i soldati tentavano di rimettere in moto veicoli danneggiati e rastrellare le zone limitrofe; fu in questa fase che il sottotenente Andrea Millevoi, comandante di un plotone di autoblindo Centauro dell’ 8º Reggimento «Lancieri di Montebello», venne mortalmente colpito mentre si sporgeva dal mezzo per valutare la situazione. Dalle ricostruzioni risulta che l’uso dell’armamento pesante fu limitato per il concreto rischio di colpire la popolazione civile che affluiva numerosa: tuttavia in almeno due occasioni furono impiegati i carri M60 del 32º Reggimento carri, che aprirono il fuoco contro container usati dai miliziani come schermo, infliggendo loro pesanti perdite, e un elicottero Mangusta impiegò un missile TOW per colpire un Iveco VM 90 italiano catturato e utilizzato dai somali, distruggendo il veicolo e uccidendo i ribelli al suo interno. La presenza massiccia di civili, in alcuni casi usati come scudi umani dagli assalitori secondo le fonti, e la natura urbana e intricatissima del teatro operarono come vincoli operativi stringenti: i soldati italiani dovettero ritirarsi sotto il fuoco, supportati dall’intervento di elicotteri da attacco Cobra statunitensi e dall’arrivo di nuovi mezzi corazzati. L’azione, durata alcune ore, si chiuse con il bilancio di tre militari italiani deceduti, il Capitano Pasquale Baccaro (186º Reggimento paracadutisti «Folgore»), il Sottotenente Andrea Millevoi (Reggimento «Lancieri di Montebello», 8º) e il Sergente Maggiore Stefano Paolicchi (9º Battaglione d’assalto paracadutisti «Col Moschin»), tutti decorati con la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria, e con almeno ventidue feriti tra le forze italiane; il sergente maggiore Giampiero Monti ricevette la Medaglia d’argento al valor militare, il sottotenente paracadutista Gianfranco Paglia fu colpito da tre proiettili (uno al polmone e uno al midollo spinale) rimanendo paralizzato ma conservando una carriera in armi fino al grado di tenente colonnello e diventando anche capitano del Gruppo Sportivo Paralimpico della Difesa; al capitano Paolo Riccò, comandante della XV Compagnia paracadutisti, venne conferita la Medaglia di bronzo al valor militare, mentre altre onorificenze d’argento e bronzo furono attribuite a elicotteristi e carabinieri paracadutisti impegnati nell’azione. Quanto alle perdite tra miliziani e civili somali, la cifra rimane controversa e difficile da stabilire con precisione: un documentario-inchiesta del 2008 (Check point Pasta, regia Andrea Bettinetti) riporta, citando fonti locali ufficiali, 67 morti e 103 feriti tra i somali, mentre fonti ufficiose suggeriscono numeri ben più alti; la natura stessa dei combattimenti urbani, la presenza di miliziani non uniformati e la difficoltà d’accesso alle informazioni in contesto pre-politico e pre-statale rendono problematica una conta attendibile delle vittime tra la popolazione locale. Sul piano delle cause e delle responsabilità esistono ipotesi differenti e talvolta contrastanti: alcune ricostruzioni, mai formalmente confermate da documenti ufficiali, sostengono che il generale Aidid si fosse rifugiato nell’area interessata e che avesse ordinato ai suoi miliziani di iniziare gli scontri per coprire la sua fuga, ordine che sarebbe poi degenerato oltre le intenzioni iniziali; altre interpretazioni parlano di agenti provocatori che avrebbero manipolato informazioni e fomentato la violenza con lo scopo di provocare una reazione italiana che rompesse il precedente atteggiamento relativamente contenuto nelle regole d’ingaggio, adducento come indizi la diffusione di materiale diffamatorio da persone presentate come intellettuali somali e una missiva inviata a Loi il 27 agosto 1993 da un delegato del quartiere di Haliwaa che elogiava l’operato italiano e contestualmente esprimeva condoglianze per le perdite, una combinazione di elementi che alcuni interpretano come contraddittoria rispetto a una provocazione orchestrata; ulteriori perplessità nascono dal fatto che Mogadiscio Nord, area del quartiere Haliwaa, era sotto il controllo di Ali Mahdi Mohamed, principale avversario di Aidid, il che intrica ulteriormente la matrice politica degli scontri e suggerisce la possibilità di giochi di alleanze e contrapposizioni locali che andarono oltre la semplice opposizione tra forze italiane e miliziani di Aidid.
Dal punto di vista storico e storiografico, la battaglia del pastificio rappresenta un episodio paradigmatico delle difficoltà delle missioni internazionali in Somalia negli anni novanta: essa mette in luce le tensioni fra obiettivi umanitari e contesti di guerra civile, la fragilità del controllo territoriale senza una chiara egemonia istituzionale, i limiti operativi imposti dalla necessità di proteggere civili in combattimenti urbani e le complesse ripercussioni a livello politico e simbolico di perdite militari in operazioni di peacekeeping o peace enforcement. L’episodio generò dibattiti in Italia sul ruolo e i rischi delle forze armate all’estero, lasciò tracce profonde nella memoria dei reparti coinvolti e nelle decorazioni concesse, e continua a essere oggetto di indagini, documentari e riflessioni su come ricostruire con rigore le responsabilità e le dinamiche di quel conflitto urbane che mescolò tattica, politica locale e crisi umanitaria.

     Roberto Marchetti

Fonte: wikipedia.org

Operazione Restore Hope

Operazione Restore Hope

UNITAF, nota anche come Operazione Restore Hope, rappresenta un capitolo cruciale e complesso dell’intervento internazionale in Somalia all’inizio degli anni Novanta: concepita dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per stabilizzare un paese precipitato in condizioni di anarchia e in una grave crisi umanitaria, l’operazione è formalmente attestata come svolta tra il 3 dicembre 1992 e il 4 maggio 1993 e venne condotta sotto il controllo operativo degli Stati Uniti, con il coordinamento politico disposto dall’amministrazione del presidente Bill Clinton attraverso l’ambasciatore Robert Oakley e con il comando militare affidato al generale Robert B. Johnston; la missione fu seguita da un successivo mandato UNOSOM II.

Il ricorso a UNITAF fu la risposta diretta all’inefficacia dimostrata da UNOSOM I, avviata nell’aprile del 1992, e nacque dall’esigenza di creare una cornice di sicurezza minima che permettesse interventi umanitari. distribuzione di cibo, assistenza medica, programmi di vaccinazione per i bambini, ricostruzione di strutture statali, e al contempo di avviare il disarmo delle fazioni armate che alimentavano il conflitto anche attraverso forme di finanziamento illecite, quali il commercio di droga e il traffico di rifiuti tossici. L’arrivo delle forze ONU si concretizzò subito: il 4 dicembre 1992 unità delle forze armate statunitensi fecero il loro ingresso in Somalia e nei giorni successivi giunsero contingenti da Italia, Belgio, Nigeria, Malaysia, Pakistan, India, Emirati Arabi Uniti e Australia; queste forze permisero l’attivazione di iniziative umanitarie e la realizzazione di operazioni mediche come l’operazione More Care, finalizzata all’erogazione di cure mediche e dentarie alla popolazione. Nonostante alcuni segnali iniziali di cooperazione, a fine dicembre, secondo la fonte, i leader di due fazioni importanti, Aidid e Ali Mahadi, sottoscrissero un accordo che lasciava intravedere una possibile de-escalation, l’occupazione internazionale del territorio si scontrò ripetutamente con l’ostilità delle milizie locali: il dispiegamento previsto per l’operazione Restore Hope fu completato il 4 gennaio 1993 con lo schieramento di oltre 25.000 caschi blu, ma le forze ONU vennero frequentemente messe in difficoltà da attacchi diretti e da manifestazioni ostili orchestrate dalle fazioni in lotta. In questo contesto i marines statunitensi intrapresero operazioni di ricerca e distruzione di arsenali e depositi di armi, sequestrando e distruggendo, tra il 7 e il 16 gennaio, oltre 1.200 tonnellate di materiale bellico; nel corso di questi scontri la prima vittima del corpo di spedizione multinazionale fu il marine Domingo Arroyo. La partecipazione italiana, identificata nel documento con la sigla ITALFOR IBIS, fu la seconda per consistenza numerica dopo quella americana e si caratterizzò per il contributo di unità specializzate e per un impiego articolato su più fronti: i primi reparti italiani a sbarcare furono incursori paracadutisti del “Col Moschin” e carabinieri paracadutisti del 1º Reggimento CC Paracadutisti “Tuscania”, giunti il 13 dicembre e autori, due giorni dopo, di un’operazione che consentì la liberazione dell’ambasciata italiana occupata senza ricorrere all’uso della forza; il contingente italiano comprendeva inoltre il 24º Gruppo Navale (in operatività dall’11 dicembre 1992 al 14 aprile 1993), al comando del Capitano di Vascello Sirio Pianigiani, e composto dall’incrociatore portaelicotteri Vittorio Veneto, dalla fregata Grecale, dal rifornitore Vesuvio e dalle LPD San Giorgio e San Marco, oltre al Battaglione San Marco; l’arrivo in teatro, datato 22 dicembre nella fonte, vide lo sbarco di 23 mezzi anfibi e 16 mezzi cingolati del Battaglione San Marco e il contributo iniziale di circa 400 fucilieri di marina, portando il totale delle forze italiane impegnate a circa 800 unità. Contemporaneamente la nave civile Sardinia Viva, noleggiata dal governo italiano, trasportò personale logistico della Brigata paracadutisti “Folgore”, la quale fornì una testa di ponte essenziale per il successivo schieramento di ulteriori reparti; tra questi il 132º Reggimento Carri operò con unità a rotazione equipaggiate con carri M60, vi furono reparti dei Lancieri di Montebello dotati di autoblindo FIAT 6614 e blindo pesanti Centauro, e successivamente si aggiunse il 186º Reggimento paracadutisti “Folgore”. La base operativa italiana venne stabilita a Balad, nei pressi della vecchia accademia militare somala, mentre un contingente più ridotto fu stanziato nel porto di Mogadiscio; l’esercito italiano, operando lungo la cosiddetta via Imperiale, retaggio della colonizzazione italiana e della successiva amministrazione fiduciaria (1950–1960), istituì sei checkpoint identificati con i nomi Obelisco, Banca, Demonio, Nazionale, Ferro e Pasta, e concentrò le proprie attività principalmente nell’area di Mogadiscio e lungo l’asse Balad–via Imperiale, privilegiando strategie di contatto con la popolazione e cercando di sfruttare, anche sul piano simbolico, l’immagine storica lasciata dal periodo coloniale e dal mandato fiduciario. Le operazioni di disarmo vennero tuttavia ostacolate dall’impiego strumentale delle masse da parte delle fazioni per compensare la loro inferiorità militare, e con l’allargamento delle ispezioni e delle ricerche di depositi di armi a tutto il territorio la Folgore subì attacchi, in particolare nella regione del Medio Shabelle il 2 febbraio, mentre incarichi specifici affidati all’ITALFOR includevano anche la formazione della nuova polizia somala, svolta da unità dei carabinieri. Il deterioramento progressivo della situazione, con manifestazioni popolari sempre più frequenti contro i caschi blu e attacchi audaci a reparti australiani, belgi e italiani, nonché il ridimensionamento della presenza statunitense decisa dal Pentagono, portarono l’ONU ad un ripensamento operativo: con la risoluzione 814 del 26 marzo 1993 venne avviata l’operazione UNOSOM II, che ampliò il mandato autorizzando i caschi blu all’uso della forza per il disarmo delle fazioni e prevedendo un nuovo approccio di stabilizzazione; la missione UNOSOM II si concluse con il ritiro graduale delle truppe tra gennaio e marzo 1995. Nel dopomissione emersero inoltre diverse controversie e questioni giudiziarie: nel 1997, a seguito della pubblicazione su un settimanale di fotografie controverse, furono sollevate accuse gravi nei confronti di alcuni paracadutisti italiani per presunti atti di violenza e abusi nei confronti di civili somali; la stampa riportò immagini che ritraevano presunti abusi, compresi casi di violenza sessuale, e tali pubblicazioni innescarono inchieste sia da parte delle autorità civili sia militari. Dalle indagini e dagli sviluppi emersero complessità procedurali e sanzionatorie: a fronte di numerose foto e testimonianze soltanto il maresciallo Ercole venne condannato in primo grado per abuso d’autorità e successivamente il procedimento si estinse per prescrizione, dopo che venne resa pubblica una fotografia che lo ritraeva mentre applicava elettrodi a un civile; nei suoi confronti fu disposto un trasferimento a 300 km di distanza con conseguente esclusione dalle missioni estere. Sempre nell’ambito delle denunce, venne alla luce un diario scritto in missione da un carabiniere paracadutista del Battaglione Tuscania che descriveva gravi abusi, torture e uccisioni di civili somali; tale documento è stato archiviato e reso disponibile il 9 giugno 2020 su Internet Archive, secondo quanto riportato dalla fonte. La vicenda vide altresì tentativi di raggiro e manipolazione dell’inchiesta da parte di un millantatore che estorse denaro al settimanale affermando di possedere foto inequivocabili, alcune delle quali risultarono poi ritoccate, e suscitò la censura, da parte di un giudice, nei confronti dello Stato Maggiore dell’Esercito per comportamenti definiti dall’atto giudiziario come inerzie e approssimazioni che avrebbero ostacolato verifiche tempestive a favore degli ufficiali coinvolti; la memoria collettiva e il dibattito pubblico intorno agli abusi è stato inoltre alimentato da contributi audiovisivi come il docufilm “La linea sottile”, che raccoglie testimonianze di veterani e racconti di presunti abusi compiuti durante la missione. Nel complesso, la ricostruzione qui sintetizzata dalla fonte documentale evidenzia una operazione internazionale condotta con obiettivi umanitari e di stabilizzazione, caratterizzata da una rapida e massiccia mobilitazione multinazionale e da successi tattici nel recupero di arsenali, ma allo stesso tempo segnata dalla resistenza delle formazioni locali, da difficoltà politiche e logistiche, da controversie giudiziarie e mediali sull’operato dei contingenti e da un’evoluzione del mandato ONU che sfociò in una seconda fase, UNOSOM II, formalmente orientata all’uso della forza per il disarmo e alla ricostruzione dell’ordine statale nel Paese.

     Roberto Marchetti

Fonte: wikipedia.org

Stormo Notturno

Stormo Notturno

Lo Stormo Notturno nasce nel quadro convulso seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943 e costituisce un caso esemplare di riorganizzazione, adattamento e specializzazione dell’Aviazione italiana nella fase terminale della Seconda Guerra Mondiale: la genesi del reparto si colloca fra le prime misure di ricostituzione della forza aerea promosse dal Regno del Sud, quando, il 15 ottobre 1943, i reparti della Regia Aeronautica che optarono per la prosecuzione della lotta a fianco degli Alleati furono riorganizzati in Gruppi Autonomi in particolare il 1º Gruppo, dotato in origine di Savoia-Marchetti S.M.75, S.M.82 e S.M.84, e l’88º Gruppo, equipaggiato con i trimotori CANT Z.1007 e da questa base evolutiva si svilupperà, attraverso fasi operative e logistiche ben caratterizzate, lo Stormo che poi assumerà la denominazione ufficiale di Stormo Notturno il 25 luglio 1944, dopo essere stato formalmente costituito il 7 luglio 1944 come 2º Stormo Bombardamento e Trasporto e posto alle dipendenze del Raggruppamento Bombardamento e Trasporti, pur operando sotto il controllo funzionale del 254º Wing della Balkan Air Force; l’attività iniziale dei CANT Z.1007, concentrati in Sardegna presso Alghero e poi a Decimomannu, fu rapidamente caratterizzata da impieghi polivalenti dalle azioni di bombardamento contro navi della flotta tedesca nel tratto fra Sardegna e Corsica alle operazioni di ricognizione, scorta e ricerca di equipaggi ma anche da dure contrapposizioni con la caccia avversaria (in particolare Messerschmitt Bf 109 del III/JG 77 e del JG 27) che causarono episodi di forte pericolo operativo, come l’attacco subito sull’aeroporto di Decimomannu il 20 settembre 1943 a seguito dell’azione su Porto Vecchio. In questo contesto logorante, il 15 ottobre 1943 prese forma presso Lecce-Galatina il 1º Gruppo Trasporto con 14 velivoli provenienti dalla Sardegna e dalla Puglia integrati da quindici velivoli in arrivo dai reparti del Nord Italia; i CANT Z.1007 rimasero operativi in Sardegna fino a dicembre 1943 con compiti primari di protezione del naviglio alleato e soccorso, prima di trasferirsi a Lecce-Galatina dove costituirono l’88º Gruppo Trasporti (all’epoca dotato di 25 esemplari Z.1007 nelle versioni bis e ter) e dove furono sperimentate soluzioni tecniche per l’aviolancio, con contenitori speciali agganciati alla semiala fino a quattro per semiala che permisero operazioni di lancio a favore sia delle forze italiane fedeli al Regno del Sud sia delle formazioni partigiane jugoslave; tali aviolanci interessarono aree interne dei Balcani come Kolašin, Zanugline, Mojkovac, Negobuda e Šavnik e, parallelamente, gli S.M.82 del 1º Gruppo contribuirono in febbraio 1944, in una significativa operazione umanitaria e militare, al rimpatrio di 1.500 sopravvissuti della Divisione partigiana “Garibaldi”. Con il consolidarsi della presenza alleata e la progressiva riduzione della pressione della Luftwaffe fenomeno che si accentuerà a partire da gennaio 1945, quando la caccia tedesca si ritirerà sostanzialmente dai cieli jugoslavi lo Stormo consolidò la propria funzione primaria di reparto da trasporto e aviolancio: le sue missioni, spesso svolte in condizioni notturne e in ambiente ostile, beneficiarono della minore interdizione aerea e permisero di sostenere logisticamente le formazioni partigiane, in particolare la Divisione “Garibaldi”, nonché di svolgere importanti collegamenti di rifornimento e trasporto per conto degli Alleati tra basi italiane e basi nel Nordafrica. Operativamente la struttura era organizzata, al 2 maggio 1945, con il 1º Gruppo (con la 1ª e la 3ª Squadriglia equipaggiate con S.M.82) e l’88º Gruppo (con la 190ª Squadriglia su CANT Z.1007 bis e la 265ª su CANT Z.1007 ter), con base operativa a Lecce-Galatina; l’ultimo lancio documentato dei CANT Z.1007 dell’88º Gruppo è registrato al 26 aprile 1945. Il bilancio operativo complessivo dello Stormo Notturno documenta la natura mista e rischiosa del suo impiego: ventiquattro operazioni belliche con lo sgancio complessivo di circa 5.700 chilogrammi di bombe; 1.654 voli di trasporto compiuti sopra territorio nemico per quasi 5.800 ore di volo in condizioni di guerra; quattro velivoli nemici abbattuti dagli equipaggi dello Stormo; e perdite significative derivanti sia dal fuoco contraereo sia dalle condizioni tecniche e operative avverse in tutto diciassette aeromobili perduti, di cui undici per incidenti, e cinquantanove membri degli equipaggi caduti in azione. Con la cessazione delle ostilità lo Stormo svolse un ruolo essenziale nel riassorbimento e nella normalizzazione delle attività aeronautiche nazionali: dal 17 ottobre 1945 la sede fu spostata da Lecce all’aeroporto di Guidonia, il reparto assunse compiti prevalenti di trasporto sul territorio nazionale e di addestramento degli equipaggi, venendo altresì impiegato per l’addestramento dei paracadutisti; nella fase di riorganizzazione dello Stato Maggiore l’1 gennaio 1948, in concomitanza con lo scioglimento del Raggruppamento Bombardamento e Trasporti, il Notturno fu inquadrato nel Raggruppamento Misto, struttura essa stessa soppressa il 10 ottobre 1948, e poco dopo, il 1º novembre 1948, lo Stormo assunse la nuova denominazione ufficiale di 36º Stormo, Specialità Trasporti. Tra i protagonisti di questa complessa vicenda umana e militare emergono i nomi dei comandanti che succedettero al comando: il Maggiore Pilota Nicola Fattibene (luglio-settembre 1944), il Tenente Colonnello Pilota Ugo Vincenzi (novembre 1944-marzo 1945), il Tenente Colonnello Pilota Giuseppe Colavolpe (marzo 1945-maggio 1946), il Tenente Colonnello Pilota Ercole Savi (maggio 1946-ottobre 1947) e il Colonnello Pilota Amedeo Micciani (ottobre 1947-novembre 1948); tra gli equipaggi e gli ufficiali che servirono nello Stormo si segnala, tra gli altri, il Maggiore Corrado Ricci. Per il valore dimostrato nelle difficili condizioni operative il reparto fu insignito della Medaglia d’Argento al Valor Militare, decorazione accompagnata da un nastro per uniforme ordinaria e da un attestato che riconobbe allo Stormo “con personale già duramente provato dalla guerra e dotato di velivoli di vecchio tipo, spesso ricostruiti con materiale recuperato, superando notevoli difficoltà tecniche logistiche e organizzative, assicurava, con continuità, i rifornimenti a truppe nazionali e partigiane operanti nei Balcani dando a esse la possibilità di condurre vittoriosamente l’asperrima lotta impegnata con il nemico accerchiante. Con l’abnegazione dei suoi equipaggi e il supremo sacrificio di alcuni di essi, offrì alla causa della Patria un magnifico contributo per la sua rinascita“, quale riconoscimento ufficiale dell’attività condotta nel periodo indicato dalla motivazione (“Cielo del Mediterraneo Centrale e dei Balcani, 1º febbraio 1944–8 maggio 1945“) e quale documento storico che sintetizza il contributo logistico-operativo e il sacrificio umano dello Stormo Notturno.

     Roberto Marchetti

Fonte: wikipedia.org

BGM-71 TOW

BGM-71 TOW

Il BGM-71 TOW (T.O.W. è l’acronimo di Tube-launched Optically-tracked Wire-guided, cioè «missile tracciato otticamente, guidato via cavo, lanciato da tubo») rappresenta, sin dalla sua introduzione operativa all’inizio degli anni Settanta, uno dei sistemi anticarro a lunga gittata più influenti e diffusi della guerra moderna: progettato come arma filoguidata di seconda generazione e dotato di guida semiautomatica del missile tramite sorgente infrarossa (SACLOS), il TOW entrò ufficialmente in servizio con l’esercito statunitense nel 1972 e conobbe subito un impiego operativo significativo nel conflitto in Vietnam, prima dalle unità di fanteria e successivamente anche montato su elicotteri equipaggiati con appositi lanciatori. Il profilo storico di questo sistema è segnato tanto da una logica di progettazione orientata alla semplicità d’uso sul campo quanto da una rapida frapposizione tra innovazione tecnica e adattamento tattico: la possibilità di lanciare un missile relativamente pesante da un tubo predisposto, seguirne la traccia attraverso sistemi ottici e impartire comandi via cavo reseva alla fanteria un’arma con capacità di colpire bersagli corazzati a distanze in precedenza riservate solo a piattaforme più pesanti. Il successo produttivo fu notevole: nei primi dodici anni furono realizzati oltre 300.000 esemplari e la produzione continuò in grandi numeri nei decenni successivi, segno di una diffusione e di un’affidabilità che ne hanno favorito l’adozione su molteplici piattaforme—non solo il lancio a terra dal treppiede tipico della configurazione fanteria, ma anche installazioni su veicoli ruotati o cingolati (attraverso agganci dedicati) e su elicotteri dotati di lanciatori specifici—e l’evoluzione continua dei suoi carichi d’arma e delle prestazioni. Sul piano delle prestazioni, il TOW mostrò fin dall’origine un equilibrio tra gittata, penetrazione e praticità: in condizioni meteo favorevoli, in assenza di superfici d’acqua che potessero creare riflessi ostacolanti la traiettoria ottica, la gittata raggiungeva i 2.950–3.000 metri; la capacità di perforazione iniziale si attestava tra i 500 e i 600 millimetri, ma successive migliorie dei proiettili e delle testate aumentarono progressivamente la capacità di penetrazione. Il costo unitario dei modelli più recenti si aggira indicativamente intorno ai 12.000 dollari, riflettendo sia l’investimento tecnologico nelle testate e nell’elettronica di guida sia la scala produttiva. Il missile «base», il nucleo fisico che caratterizza il sistema, pesa poco meno di 19 kg e monta un cono-ogiva del diametro di 127 mm; la sua velocità iniziale massima si avvicina a 345 m/s e, nelle versioni a maggiore potenza di perforazione, è in grado di raggiungere penetrazioni dell’ordine dei 900 mm con le testate più perforanti. Le testate impiegate sono del tipo HEAT (High Explosive Anti-Tank), vale a dire cariche cave: un concetto balistico ed esplosivo che si basa su un’ogiva allungata e su uno stand-off ottimale fra detonatore e bersaglio per permettere la formazione, al momento dell’esplosione, di un getto ad altissima temperatura e velocità — descritto nelle fonti come «getto di plasma» — che applica sul rivestimento del carro una pressione estremamente elevata (nell’ordine di migliaia di chilogrammi per centimetro quadrato), così da penetrare gli spessori corazzati; oltre alla foratura meccanica, questo processo porta a temperature elevatissime all’interno del volume penetrato, spesso sufficienti ad innescare la detonazione o la deflagrazione delle munizioni stivate all’interno dei veicoli colpiti, con conseguenze catastrofiche per l’efficacia e la sopravvivenza del mezzo. La configurazione standard adottata dalle unità di fanteria comprende sei componenti principali che rendono il sistema trasportabile, puntabile e impiegabile in condizioni field: il treppiede, l’affustino (il congegno di direzione e di sparo che connette il sistema di puntamento al lanciatore), l’elettronica di guida, il C.P.R. (congegno di puntamento e di rilevazione obiettivo), il tubo di lancio e il contenitore che ospita il missile; questa modularità permette un rapido dispiegamento e una certa versatilità d’impiego, mentre la presenza di sistemi di aggancio e di lanciatori dedicati consente l’adattamento a piattaforme veicolari e aeree evitando l’uso del treppiede. Dal punto di vista operativo, l’introduzione del TOW ha ridefinito alcune pratiche anticarro: la possibilità di mettere fuori combattimento carri corazzati a distanze prossime ai 3 km, con una probabilità di penetrazione crescente grazie alle versioni migliorate della testata, ha influenzato la dottrina su come distribuire le risorse anticarro in un teatro e ha imposto nuove contromisure in termini di schermature, distanziatori e tattiche di sopravvivenza dei mezzi corazzati. In sintesi, se si osserva il TOW attraverso la lente diacronica che coniuga dati tecnici, scelte progettuali e impieghi operativi, si ha un esempio significativo di come una soluzione concettualmente semplice — un missile lanciato da tubo, seguito otticamente e guidato tramite filo — possa, per efficacia, modularità e adattabilità, trasformarsi in un punto di riferimento duraturo della guerra anticarro dal 1972 in poi, con una produzione e una diffusione che testimoniano sia il successo industriale sia la persistenza del progetto nelle esigenze belliche contemporanee.

     Roberto Marchetti

Fonte: wikipedia.org

MILAN

MILAN

Il MILAN (acronimo del francese Missile d’Infanterie Léger ANtichar) nasce come esito di una cooperazione industriale transnazionale avviata agli inizi degli anni sessanta: lo sviluppo fu intrapreso a partire dal 1962 da Euromissile, la joint-venture costituita dalla francese Aérospatiale e dalla tedesca Deutsche Aerospace (sussidiaria del gruppo MBB), con l’obiettivo di dotare le forze alleate europee di un sistema anticarro a medio raggio moderno, leggero e facilmente trasportabile dalla fanteria. La produzione in serie iniziò nel 1972 e, nel 1973, il sistema venne consegnato all’esercito francese come sostituto dell’ENTAC; grazie alla combinazione di semplicità d’uso, compattezza e costi relativamente contenuti, il MILAN conobbe una diffusione capillare: già nel 1984 erano stati prodotti e ordinati oltre 164.000 esemplari da una trentina di paesi, mentre alla data del 2006 la produzione cumulata superava le 350.000 unità tra le diverse versioni, rendendo il MILAN uno dei sistemi anticarro più venduti nella sua categoria e adottato da 41 nazioni oltre che da vari movimenti di guerriglia. Progettualmente il MILAN è un missile filoguidato semiautomatico a linea di mira (SACLOS): il sistema di tiro è inseparabile dall’ordigno, per cui l’operatore mantiene il puntamento ottico per l’intera durata del volo mentre l’elettronica del lanciatore calcola le correzioni e le trasmette al missile tramite un sottile filo rilasciato durante la traiettoria; la guida SACLOS, nelle versioni iniziali, sfrutta un tracciatore a infrarossi che rileva la traccia pirotecnica posteriore del missile e, nelle evoluzioni, una sorgente di luce a flash elettronici meno vulnerabile a contromisure come i flare. Dal punto di vista aerodinamico e meccanico, l’ordigno è dotato di alette ripiegabili che consentono compattezza e stivabilità all’interno di un tubo di lancio sigillato il tubo protegge il missile da sabbia, polvere, umidità e urti e, subito dopo il lancio, le alette si dispiegano mentre quattro superfici di controllo impongono una lenta rotazione stabilizzatrice in coda e le correzioni d’assetto ricevute via filo; la carica di lancio provoca inoltre il rinculo del contenitore, che viene espulso all’indietro fino a circa 6 metri. Il MILAN è un arma subsonica (velocità massima dichiarata intorno a 720 km/h, corrispondente a circa 200 m/s, con una velocità media attorno ai 160 m/s e una velocità residua poco superiore a 100 m/s dopo l’esaurimento del propellente) con gittata tipica di 2 km (coperta in circa 12,5 secondi) e, nella versione ER, estesa fino a 3.000 m; la traiettoria di volo viene mantenuta a circa 50 cm rispetto alla linea di mira per evitare impatti con asperità del terreno, il che insieme alla necessità di tenere il puntatore orientato sul bersaglio espone il lanciatore a un rischio aumentato di scoperta rispetto ai sistemi di prima generazione, ma le probabilità di individuazione rimangono relativamente basse fino a distanze superiori agli 800 m. La testata del MILAN è di tipo HEAT a carica cava — nelle evoluzioni in tandem per contrastare corazze reattive — che, grazie alla formazione di un getto di plasma ad altissima temperatura e pressione, garantisce capacità di perforazione rilevanti: la penetrazione su corazza d’acciaio è indicata come compresa fra i 350 mm (valore associato al 95% di probabilità di successo nelle condizioni dichiarate) e i 900 mm, mentre su un muro di cemento armato la penetrazione può raggiungere i 2,5 metri; nonostante ciò, già nei primi anni novanta emersero dubbi circa l’efficacia delle testate contro le corazze frontali dei carri più pesanti, circostanza che spinse allo sviluppo di versioni con testate tandem e ad ulteriori miglioramenti del sistema di guida. Le varianti si susseguirono rispondendo a esigenze operative e tecniche: il Milan F1 (1972) aveva una carica cava singola e calibro 103 mm con tracciante pirotecnico; il Milan F2 (1984) adottò una carica cava singola di calibro 115 mm; il Milan F2A (1993) e il Milan F3 introdussero soluzioni a due cariche cave in tandem (con differenze nel tipo di tracciamento), mentre il Milan ER fu studiato per la lunga gittata e prtebbe offrire letalità potenziata. Sul piano dell’impiego operativo, il MILAN si diffuse soprattutto nella fanteria impiegato su treppiede e, meno frequentemente, in configurazioni veicolari e fu adottato anche da reparti paracadutisti e dalla marina; l’arma ha conosciuto un impiego estensivo in numerosi teatri: è documentato il suo ruolo durante la Guerra delle Falkland, dove precisione e letalità contribuirono agli esiti di scontri come Goose Green; in Africa settentrionale il suo impiego da parte di forze irregolari (ad esempio in Ciad e da forze sahrawi contro unità marocchine) fu significativo; nel Medio Oriente vari gruppi, compresa l’OLP, lo usarono a partire dagli anni ottanta; in Iraq il MILAN comparve sia nel conflitto Iran-Iraq che nella Guerra del Golfo del 1991, quando forze francesi impiegarono circa 25 missili in combattimento. L’armamento ebbe anche impieghi sperimentali contro elicotteri, benché la relativa lentezza costituisca un limite per ruoli superficie-aria. La diffusione commerciale e militare fu accompagnata, tuttavia, da preoccupazioni ambientali e sanitarie: le prime generazioni di MILAN utilizzavano tracciatori a base di torio circa 2,7 grammi per missile, con attività nell’ordine di 10 kBq per generare la traccia infrarossa necessaria alla stazione di tiro; il torio veniva rilasciato durante il volo e l’esplosione, e ciò indusse misure di cautela (ad esempio l’esercito tedesco, dal 2001, adottò procedure per la raccolta dei riscaldatori incandescenti e vietò l’uso agricolo delle aree bersaglio) e studi ambientali: una analisi sulla base militare di Shilo in Manitoba, Canada, associata all’impiego dei sistemi MILAN, riscontrò livelli elevati ma inferiori ai limiti normativi di torio-232 nelle acque sotterranee e raccomandò la cessazione dell’uso dei missili in quell’area; l’Associazione dei medici internazionali per la prevenzione delle armi nucleari (IPPNW) valutò inoltre rischi a lungo termine quali un aumento del cancro polmonare e danni genetici. In risposta a queste preoccupazioni e all’evoluzione tecnica, le versioni successive al 1999 dovrebbero non utilizzare più il torio. Sul piano della sensoristica notturna, a partire dagli anni Ottanta si svilupparono sistemi termici opzionali come la camera MIRA, che secondo le specifiche produttive dell’epoca offriva una portata di scoperta di circa 4 km; ulteriori sviluppi portarono al sistema MILIS per le versioni più recenti del missile, con prestazioni dichiarate superiori (portata di scoperta intorno a 7 km e portata di identificazione intorno a 3 km). Il ciclo operativo del lancio è caratterizzato da una sequenza automatizzata: l’inserimento e il bloccaggio del contenitore sul lanciatore, l’attivazione tramite un impulso elettrico che alimenta la batteria termica della scatola di giunzione, la sequenza di stoccaggio e l’accensione del generatore dei gas di lancio e del motore di partenza; durante la fase di volo l’elettronica riceve la traccia IR emessa dai tracciatori posteriori e, in caso di deviazioni, invia segnali correttivi al missile attraverso il filo guida, che l’elettronica di bordo traduce in comandi al cosiddetto “coltello intercettore di getto” per correggere la traiettoria. In Italia il MILAN è stato largamente impiegato dall’Esercito e adottato anche da unità navali come il battaglione San Marco e dalla Brigata paracadutisti “Folgore”: l’ordine italiano originario fu particolarmente consistente (1.000 lanciamissili e 30.000 missili), sebbene la fornitura non sia stata completata fino a quel livello, con consegne contabilizzate di 716 lanciamissili e 17.000 missili; il costo unitario stimato nel 1990 era di circa 4 milioni di lire. Il successo commerciale del MILAN, infine, ha convissuto con la normale evoluzione tecnologica: pur essendo ancora in produzione a lungo dopo il suo ingresso in servizio, il sistema ha visto comparire successori come il Trigat-MR; tuttavia, la combinazione di costi più elevati e di un contesto operativo in cui l’importanza delle azioni anticarro su larga scala è diminuita rispetto al passato suggerisce che nessun successore abbia replicato incondizionatamente il successo commerciale e la diffusione di massa raggiunti dal MILAN.

     Roberto Marchetti

Fonte: wikipedia.org

Joint Task Force “Bravo”

Joint Task Force “Bravo”

La Joint Task Force “Bravo”, di stanza alla Soto Cano Air Base in Honduras, costituisce un dispositivo interforze stabilmente proiettato nello spazio geopolitico dell’America Centrale, del Sud America e dei Caraibi, concepito per assicurare al Comando Meridionale degli Stati Uniti un presidio operativo flessibile, capace di integrare funzioni militari, logistiche e civili in attività che vanno dal sostegno alle operazioni governative statunitensi al contrasto della criminalità organizzata transnazionale, fino all’assistenza umanitaria e ai soccorsi in caso di disastri; la sua struttura, calibrata per garantire continuità, reattività e interoperabilità, si articola in uno Stato Maggiore interforze (Joint Staff) con funzioni di pianificazione, coordinamento e collegamento interagenzia, in un Army Forces Battalion che fornisce la componente terrestre con capacità di sicurezza delle installazioni, supporto logistico e comando-controllo tattico, nel 1st Battalion, 228th Aviation Regiment che assicura la mobilità aerea, l’evacuazione medica, il trasporto di personale e materiali e l’osservazione dall’alto, e nel 612th Air Base Squadron, responsabile della gestione della base, del supporto aeroportuale e delle infrastrutture essenziali; questa architettura consente alla task force di fungere da hub regionale, mettendo in rete partner diversi e strumenti complementari, dal genio militare alla sanità operativa, dall’aviazione all’amministrazione del territorio, per intervenire lungo l’intero spettro delle missioni previste. Nel sostegno alle operazioni del governo statunitense, la JTF-Bravo opera come piattaforma di integrazione tra forze armate e organismi civili, facilitando la presenza di team interagenzia, l’ingresso rapido di capacità specialistiche e la messa a fattor comune di informazioni, procedure e regimi legali, con un’attenzione costante alla cornice di legittimità e trasparenza che condiziona ogni attività extraterritoriale; tale dimensione istituzionale si traduce in cicli di pianificazione congiunta, in cui lo Stato Maggiore interforze elabora linee d’operazione coerenti con le priorità del Comando Sud degli Stati Uniti, individua i requisiti di forze e sincronizza l’impiego delle componenti terrestri, aeree e di supporto, garantendo anche la compatibilità tecnica e procedurale con le capacità dei paesi partner. Il contrasto alla criminalità organizzata transnazionale, fenomeno che sfrutta porosità territoriali e reti logistiche regionali, richiede un approccio multilivello che la task force declina attraverso missioni di sorveglianza e supporto a operazioni di law enforcement condotte dai partner, potenziamento della mobilità e della consapevolezza situazionale, attività di consulenza tattica e formazione mirate a rafforzare le capacità indigene nel rispetto delle prerogative sovrane, con particolare cura per le procedure di deconfliction, per la tutela dei diritti umani e per la mitigazione degli impatti sulle comunità locali; in questo contesto il 1-228th Aviation Regiment fornisce piattaforme aeree essenziali per il movimento rapido e la copertura informativa, mentre l’Army Forces Battalion assicura cornici di sicurezza e supporto logistico alle forze partner, e il 612th Air Base Squadron mantiene la continuità delle operazioni di base necessaria a sostenere missioni a raggio esteso. La dimensione umanitaria e di soccorso in caso di disastri (HA/DR) rappresenta uno dei tratti distintivi della JTF-Bravo, che si prepara a intervenire in scenari caratterizzati da infrastrutture degradate, interruzione delle comunicazioni, mobilità compromessa e alto fabbisogno sanitario: grazie a capacità aeromobili dedicate, a moduli sanitari proiettabili e a catene logistiche resilienti, la task force può effettuare ricognizioni rapide, trasporto di aiuti, evacuazioni mediche e ripristino di funzioni critiche, coordinandosi con autorità nazionali, organizzazioni internazionali e agenzie umanitarie; in tale quadro rientrano gli esercizi e le attività di preparazione congiunta che, condotti con regolarità, riproducono le complessità di eventi naturali ricorrenti nell’area e consolidano protocolli comuni di risposta. La costruzione di capacità nei paesi partner costituisce il filo rosso che lega tutte le altre linee d’azione: programmi di addestramento congiunto, scambi di pianificazione, workshop dottrinali e manutenzione condivisa di standard tecnici rafforzano la resilienza istituzionale e operativa degli apparati di sicurezza locali, favorendo l’emersione di procedure compatibili in materia di comando e controllo, comunicazioni, logistica, sanità e protezione civile; in questo senso la JTF-Bravo opera da “ponte” tra culture organizzative diverse, traducendo in pratiche operative comuni concetti quali interoperabilità, responsabilità e sostenibilità delle capacità, e curando lo sviluppo di leadership professionali nei quadri dei partner. Il fuoco operativo della task force resta quello di promuovere sicurezza e stabilità all’interno della regione del Comando Sud degli Stati Uniti attraverso cooperazione, presenza e prontezza al soccorso: il baricentro geografico di Soto Cano le consente di raggiungere con tempi di reazione contenuti aree insulari e continentali, mentre la tessitura relazionale con le istituzioni locali apre canali di comunicazione e coordinamento che si rivelano decisivi quando l’urgenza impone decisioni rapide e ben informate; emblematici, in questa prospettiva, gli esercizi svolti in Panama, in cui la simulazione di scenari complessi di risposta ai disastri permette di mettere alla prova catene decisionali, collegamenti radio, flussi informativi e procedure di sicurezza, traducendo l’esperienza in lezioni apprese che rientrano nel ciclo di pianificazione successivo. A livello organizzativo, l’equilibrio tra permanenza e modulazione è garantito da una governance che coniuga la continuità del Joint Staff con la flessibilità dei reparti impiegabili, così che la task force possa operare tanto in configurazioni leggere – per missioni di collegamento, ricognizione o consulenza – quanto in assetti più robusti quando le esigenze di mobilità, protezione e logistica lo richiedano; l’attenzione alla protezione della forza, alla gestione del rischio e alla condotta responsabile si traduce in procedure di valutazione continua, in cui la raccolta e l’analisi di dati operativi e ambientali guidano l’allocazione delle risorse e la definizione delle priorità. In definitiva, la JTF-Bravo si presenta come uno strumento ibrido e coerente, capace di agire all’intersezione tra sicurezza, governance e assistenza, con una composizione – Joint Staff, Army Forces Battalion, 1st Battalion, 228th Aviation Regiment e 612th Air Base Squadron – che le consente di sostenere nel tempo missioni diverse ma complementari, mantenendo al centro la cooperazione con i paesi partner e l’efficacia delle risposte a emergenze e minacce transnazionali nella regione centro e sudamericana e caraibica

     Roberto Marchetti

Fonte: .jtfb.southcom.mil. southcom.mil.

Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP)

Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP)

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nacque nel 1964 a Gerusalemme per iniziativa della Lega Araba, in un contesto storico segnato dal conflitto arabo-israeliano esploso dopo la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 e dalla conseguente Nakba, l’esodo forzato di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro terre. La sua istituzione rispondeva all’esigenza di dare una rappresentanza unitaria al popolo palestinese, allora frammentato tra i campi profughi e i diversi paesi arabi in cui era disperso, con l’obiettivo dichiarato di liberare la Palestina attraverso la lotta armata contro Israele. L’OLP si configurò sin da subito come un’organizzazione “ombrello”, comprendente partiti politici, gruppi di resistenza e personalità indipendenti, e si strutturò con un assetto istituzionale che prevedeva un Consiglio Nazionale Palestinese (CNP), organo legislativo e di indirizzo, incaricato di stabilire le linee politiche e di eleggere il Comitato Esecutivo, il quale a sua volta fungeva da organismo esecutivo e da rappresentanza internazionale.

Negli anni successivi alla fondazione, l’OLP divenne il punto di riferimento per la causa palestinese a livello regionale e internazionale, guadagnando progressivamente il riconoscimento come unico legittimo rappresentante del popolo palestinese, soprattutto dopo che la sua guida fu assunta da Yasser Arafat e dal suo movimento, al-Fatah, la principale formazione politico-militare palestinese. Gli anni Sessanta e Settanta furono contrassegnati da un’intensa attività armata e da un ruolo centrale dell’OLP nel più ampio confronto tra Israele e il mondo arabo, in un’epoca segnata dalle guerre arabo-israeliane del 1967 e del 1973 e dalla radicalizzazione del conflitto. Dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967, che sancì l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, Sinai e Golan, la questione palestinese acquisì un peso crescente nell’arena internazionale e l’OLP assunse sempre più il volto di un movimento di resistenza nazionale.

Il percorso dell’organizzazione conobbe tuttavia una trasformazione significativa a partire dagli anni Ottanta, in particolare dopo l’invasione israeliana del Libano nel 1982, che costrinse l’OLP a trasferire la propria base da Beirut a Tunisi, riducendone la capacità militare e spingendola verso una maggiore attenzione alla dimensione diplomatica. La prima Intifada, esplosa nei territori palestinesi occupati nel 1987, accelerò questo processo di mutamento politico, segnando l’emergere di nuove forze, tra cui Hamas, che mettevano in discussione la leadership storica dell’OLP. Nel nuovo scenario internazionale, caratterizzato dalla fine della Guerra Fredda e da una crescente pressione della comunità internazionale per la ricerca di una soluzione negoziata, l’organizzazione guidata da Arafat intraprese un percorso di riconoscimento reciproco con Israele.

Il momento di svolta fu rappresentato dalla firma degli Accordi di Oslo nel 1993, sotto la presidenza di Arafat e con la mediazione degli Stati Uniti. In quell’occasione, per la prima volta l’OLP riconobbe ufficialmente il diritto all’esistenza dello Stato di Israele e rinunciò all’obiettivo originario della liberazione dell’intera Palestina storica, ridefinendo la propria strategia in favore della costruzione di uno Stato palestinese indipendente entro i confini del 1967, con capitale Gerusalemme Est. Gli Accordi portarono alla creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), organismo di autogoverno incaricato di amministrare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, sotto la guida politica dell’OLP e con Arafat come suo primo presidente. Questo passaggio sancì un profondo cambiamento nella natura dell’organizzazione, che da movimento di liberazione nazionale prevalentemente militare si trasformò in un attore politico-istituzionale, impegnato nella costruzione di un embrione di entità statale.

Tuttavia, la nuova linea politica dell’OLP non mancò di suscitare divisioni interne e contestazioni tra i palestinesi. La rinuncia alla lotta armata e la scelta negoziale furono accolte con scetticismo da parte di alcune fazioni interne all’organizzazione e da altri gruppi esterni, come Hamas e la Jihad islamica, che si opposero apertamente agli Accordi di Oslo, ritenuti una resa rispetto alle aspirazioni nazionali. Con il tempo, inoltre, l’OLP andò incontro a un progressivo indebolimento: se negli anni Settanta e Ottanta aveva rappresentato la voce indiscussa del popolo palestinese, dagli anni Novanta in avanti perse gradualmente influenza, schiacciata tra le difficoltà del processo di pace, l’espansione degli insediamenti israeliani, la frammentazione interna e la competizione con nuove forze politiche e militari emerse soprattutto a Gaza.

Oggi l’OLP mantiene il suo ruolo di rappresentanza internazionale, con uno status di osservatore permanente presso le Nazioni Unite ottenuto già negli anni Settanta e confermato nel tempo, ma la sua capacità di incidere sulla realtà politica palestinese si è ridotta, limitandosi in gran parte alla Cisgiordania, attraverso la mediazione e il controllo politico sull’Autorità Nazionale Palestinese. La parabola dell’OLP, dalla nascita in un Medio Oriente ancora segnato dal panarabismo e dalle guerre arabo-israeliane, al riconoscimento internazionale come rappresentante del popolo palestinese, fino al ripiegamento istituzionale e alla perdita di centralità nel XXI secolo, riflette non solo le vicende interne della leadership palestinese, ma anche le trasformazioni geopolitiche regionali e globali che hanno scandito oltre mezzo secolo di conflitto mediorientale.

     Roberto Marchetti

Fonte: wikipedia.org. infopal.it. ambasciatapalestina.com

Maria José del Belgio

Maria José del Belgio

Maria José Carlotta Sofia Amelia Enrichetta Gabriella di Sassonia Coburgo-Gotha, più nota come Maria José del Belgio, nacque a Ostenda il 4 agosto 1906. Figlia di Alberto I, che dal 1909 fu re dei Belgi, e di Elisabetta Gabriella, duchessa in Baviera, crebbe in un ambiente familiare fortemente permeato di cultura, apertura intellettuale e sensibilità artistica. I nonni paterni erano il conte Filippo di Fiandra e la principessa Maria di Hohenzollern-Sigmaringen, mentre i materni erano il duca Carlo Teodoro in Baviera e la sua seconda moglie, Maria José di Braganza, infanta del Portogallo. Trascorse l’infanzia insieme ai fratelli Leopoldo e Carlo Teodoro, formandosi in un contesto in cui lo studio della musica, della letteratura e delle discipline sportive si intrecciava con l’educazione civile e politica, improntata dal padre a ideali liberali e persino socialisteggianti. La Grande Guerra segnò profondamente la sua giovinezza: mentre Alberto I guidava personalmente l’esercito belga, conquistandosi la fama di “re cavaliere”, e la madre Elisabetta assisteva i feriti, Maria José e i fratelli furono inviati in Inghilterra, dove studiarono presso il convento delle Orsoline di Brentwood. Fin da bambina era stata destinata dai genitori a sposare l’erede al trono d’Italia, Umberto di Savoia, figlio di Vittorio Emanuele III ed Elena del Montenegro. Per prepararsi a questo futuro matrimonio fu inviata a studiare in Italia, presso il collegio della Santissima Annunziata a Villa di Poggio Imperiale, dove apprese la lingua italiana e conobbe per la prima volta Umberto nel 1916 al castello di Lispida a Monselice. Terminati gli studi italiani, proseguì la formazione presso il collegio delle suore del Sacro Cuore al castello di Linthout, in Belgio.

L’8 gennaio 1930, a Roma, nella Cappella Paolina del Quirinale, sposò il Principe di Piemonte. Dopo la cerimonia nuziale, gli sposi furono ricevuti da papa Pio XI, che aveva da poco sottoscritto i Patti Lateranensi, suggellando la riconciliazione tra Stato italiano e Santa Sede. I primi anni di matrimonio furono trascorsi a Torino, dove Umberto comandava il 92º reggimento di fanteria. In questo periodo emersero i contrasti tra la principessa e la corte sabauda: l’apertura culturale e il liberalismo del suo retroterra mal si conciliavano con il rigore e la rigidità della monarchia italiana, né con l’ossequio del marito verso l’autorità paterna e le convenzioni di corte. Maria José scelse di coltivare relazioni indipendenti con intellettuali e artisti, distaccandosi dalla vita sociale tradizionale dell’aristocrazia piemontese e romana.

Il trasferimento a Napoli nel 1933 segnò una parentesi più serena. La città e i suoi abitanti le rimasero cari per tutta la vita. In questo periodo nacquero tre dei quattro figli della coppia: Maria Pia (1934), Vittorio Emanuele (1937), erede al trono, e Maria Gabriella (1940). L’ultima, Maria Beatrice, venne al mondo nel 1943 a Roma. La principessa si occupò personalmente della loro educazione, pur dovendo rinunciare al desiderio di iscriverli a scuole pubbliche, accontentandosi di un’istitutrice montessoriana, la signorina Paolini, che rimase al loro fianco fino all’esilio. Ma gli anni napoletani furono anche funestati da gravi lutti: la morte del padre Alberto nel 1934, avvenuta durante un incidente di montagna, e quella della cognata Astrid, regina dei Belgi, deceduta nel 1935 in un incidente automobilistico.

I rapporti di Maria José con il regime fascista furono sin dall’inizio problematici. L’avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista, la guerra d’Etiopia del 1935, le sanzioni internazionali, l’Asse Roma-Berlino del 1936 e soprattutto le leggi razziali del 1938 suscitarono in lei aperta ostilità. Quando Hitler visitò Roma nel 1938, già nutriva sentimenti di ripulsa verso Mussolini e la dittatura. Secondo fonti diplomatiche inglesi, nello stesso anno avrebbe persino tentato, insieme ad alti ufficiali e a figure politiche come Pietro Badoglio, Dino Grandi e Galeazzo Ciano, un colpo di Stato per rovesciare Mussolini, costringere Vittorio Emanuele III ad abdicare e affidare la reggenza a lei stessa in nome del figlio Vittorio Emanuele. Questo progetto, mai concretizzato, rimase confinato a riunioni riservate. Da quel momento i suoi rapporti con il regime si raffreddarono ulteriormente: evitava la compagnia di gerarchi fascisti come Starace, Muti, Farinacci e Pavolini, preferendo coltivare rapporti con figure estranee al fascismo, come Gabriele d’Annunzio, Arturo Toscanini, Thomas Mann e Giuseppe Antonio Borgese. Mussolini, diffidente e freddo nei suoi confronti, ordinò al capo della polizia Arturo Bocchini di sorvegliarla costantemente e impose alla stampa di non definirla principessa ereditiera, ma solo Principessa di Piemonte.

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Maria José non nascose le proprie perplessità. Considerava l’entrata in guerra dell’Italia un errore fatale e sosteneva che l’unica via per evitare sofferenze al popolo fosse la caduta del fascismo. Dal 1941 al 1943 intessé una fitta rete di contatti con esponenti antifascisti: Benedetto Croce, Umberto Zanotti Bianco, Ugo La Malfa, Alcide De Gasperi, Ivanoe Bonomi, Elio Vittorini, monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI. Incurante dei rischi, agì come tramite fra opposizione e monarchia, guadagnandosi nell’ambiente di corte la definizione di “unico uomo di Casa Savoia”. Dopo il bombardamento di Roma del 19 luglio 1943, il re fu convinto ad agire. Il 25 luglio Mussolini fu destituito e arrestato: Maria José seppe la notizia due ore prima dell’annuncio ufficiale. Pochi giorni dopo, Vittorio Emanuele III, che non le rivolgeva la parola da oltre due anni, la convocò e le impose di troncare ogni rapporto politico, confinandola con i figli a Sant’Anna di Valdieri sotto la sorveglianza della cognata Iolanda. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 trovò rifugio in Svizzera, a Montreux, poi a Oberhofen, per evitare i progetti nazisti di rapire il figlio. Qui riprese i contatti con antifascisti in esilio, tra cui Luigi Einaudi, e riuscì persino a trasportare armi ai partigiani. Nel febbraio 1945, mentre il Terzo Reich crollava, attraversò le Alpi con gli sci per rientrare in Italia, accolta dai partigiani che la condussero a Racconigi, da dove fu poi ricondotta a Roma per ricongiungersi con Umberto dopo due anni di separazione.

Il 9 maggio 1946, mentre tornava da una visita come ispettrice della Croce Rossa a Cassino, fu informata che il marito era divenuto re dopo l’abdicazione del suocero. Nacque così la figura della “regina di maggio”: il suo regno come consorte durò appena trentatré giorni, il più breve nella storia dell’Italia unita, e coincise con il referendum istituzionale del 2 giugno, che sancì la nascita della Repubblica. Priva di illusioni, non mostrò entusiasmo, consapevole dell’imminente sconfitta della monarchia. Il 5 giugno Umberto le comunicò la proclamazione della Repubblica e l’imminente esilio. Avrebbe voluto rivedere Napoli, ma il marito glielo impedì, fedele all’impegno preso con De Gasperi di lasciare l’Italia senza indugio.

L’esilio, iniziato in Portogallo e poi proseguito in Svizzera, segnò la frattura definitiva con Umberto. Si separò presto dal consorte, portando con sé il figlio Vittorio Emanuele a Merlinge, mentre le figlie restarono a lungo col padre. Viaggiò molto, visitando Cina, India, Unione Sovietica, Polonia, Cuba e Stati Uniti, dedicandosi alla ricerca storica su Casa Savoia e alla cultura musicale, istituendo premi e scrivendo saggi che le valsero la Legion d’onore francese. Il matrimonio, già fragile, naufragò definitivamente, e la solitudine divenne il tratto dominante della sua vita, segnata anche da rapporti difficili con i figli, che la accusavano di autoritarismo. Confidò in seguito che avrebbe dovuto “fuggire la notte delle nozze” e dichiarò di aver votato scheda bianca al referendum del 1946, per non dover votare “per se stessa e il marito”. Negli ultimi anni trovò un certo riavvicinamento con la figlia Maria Beatrice, con la quale visse in Messico tra il 1992 e il 1996, prima di tornare in Europa.

Maria José del Belgio morì a Thônex, presso Ginevra, il 27 gennaio 2001. Per sua volontà fu sepolta accanto al marito nell’abbazia di Altacomba, in Alta Savoia. Ai funerali parteciparono numerosi membri delle famiglie reali europee, tra cui Juan Carlos I di Spagna, i reali di Belgio e Lussemburgo, Alberto II di Monaco, gli ex sovrani di Bulgaria e Grecia, Farah Diba, Michele di Jugoslavia. Durante le esequie furono eseguiti l’inno nazionale sardo e canti alpini, mentre papa Giovanni Paolo II inviò un messaggio di cordoglio al figlio Vittorio Emanuele. Figura colta, inquieta e complessa, regina per un solo mese ma protagonista di vicende cruciali, Maria José rimase per molti un simbolo irrisolto della modernizzazione mancata della monarchia italiana.

     Roberto Marchetti

Fonte: thefinitive.com
Foto: wikipedia.org