Provide Comfort

Provide Comfort

L’Operazione “Provide Comfort”, lanciata nel 1991 su mandato delle Nazioni Unite in risposta alla repressione della popolazione curda da parte del regime iracheno di Saddam Hussein, si configurò come una delle più complesse e delicate missioni umanitarie e militari del dopoguerra. Nel contesto della crisi umanitaria che seguì la guerra del Golfo e l’insurrezione fallita dei curdi nel nord dell’Iraq, l’intervento internazionale si prefiggeva di creare una zona di sicurezza e di assistenza per agevolare il rientro e la sopravvivenza dei profughi. In questo scenario nacque l’Operazione “Airone”, sotto l’egida del contingente interforze italiano Italfor, la cui componente operativa, denominata Italpar, fu protagonista di un impegno che seppe coniugare efficienza militare e sensibilità umanitaria.

A differenza delle altre componenti italiane dislocate presso la base di Incirlik in Turchia, Italpar fu l’unica unità di Italfor effettivamente presente nel Kurdistan iracheno, a Zakho, nell’area operativa della Task Force “Bravo”, comandata dal generale di divisione statunitense Gardner. Italpar, inoltre, operava sotto il controllo tattico diretto della TF “Bravo”, senza dipendere gerarchicamente dal Comando di Italfor. Il compito assegnato alla TF era quello di stabilire una cornice di sicurezza che favorisse il ritorno dei profughi curdi nelle loro regioni d’origine. Italpar divenne così l’elemento operativo cardine della presenza italiana in un teatro operativo tra i più complessi, tanto dal punto di vista logistico quanto da quello politico e militare.

La composizione di Italpar rifletteva una perfetta integrazione tra capacità offensive, logistiche e sanitarie. Le sue forze principali provenivano dalla Brigata Paracadutisti “Folgore”, comprendente il Comando, il 5° Battaglione “El Alamein”, il Reparto Logistico, una compagnia Genio, una compagnia Incursori del 9° Reggimento d’assalto paracadutisti “Col Moschin” e un plotone Carabinieri del Reggimento Paracadutisti “Tuscania”. A esse si aggiungeva una componente sanitaria della Brigata Alpina “Taurinense”, dotata di un Ospedale da Campo Aviotrasportabile e del supporto delle Infermiere Volontarie della Croce Rossa Italiana. Tale struttura composita garantiva l’autonomia operativa del contingente e la sua capacità di svolgere ogni tipo di attività prevista nel mandato della missione.

Giunti a Zakho, i paracadutisti italiani dovettero affrontare immediatamente condizioni ambientali estreme e criticità logistiche. La base, completamente da allestire, fu inizialmente installata sotto tende, in un’area priva di infrastrutture, esposta a temperature superiori ai 45 gradi e vulnerabile sotto il profilo tattico. La risposta a tale sfida fu pragmatica e decisa: utilizzando container abbandonati e carcasse di mezzi iracheni distrutti, venne eretto un bastione difensivo, rafforzato da decine di migliaia di sacchetti di sabbia e da una cinta perimetrale composta di concertine e bunker collegati, in un’architettura difensiva degna dei più tradizionali teatri di guerra del Novecento. Solo in seguito, e a seguito dell’autorizzazione del generale Gardner, Italpar poté trasferirsi in una base più sicura e funzionale.

Parallelamente ai lavori di allestimento, sin dai primi giorni, i reparti entrarono in azione. I paracadutisti installarono tende e infrastrutture nei campi profughi; gli alpini e il personale sanitario resero operativo l’ospedale da campo; gli Incursori affiancarono le truppe francesi nel recupero di profughi in zone montane; i carabinieri garantirono l’ordine pubblico e la sicurezza lungo le principali arterie stradali. In tutte queste attività, Italpar dimostrò non solo efficienza esecutiva ma anche una capacità proattiva di risposta alle esigenze del teatro operativo. La rapidità d’azione e la prontezza organizzativa conquistarono la fiducia del comando statunitense, inizialmente prudente verso la reale efficacia operativa del contingente italiano. Un aneddoto emblematico riguarda l’ispezione di un ufficiale della TF “Bravo” presso la base di Italpar, accolto con un bicchiere di vino e con la promessa che avrebbe potuto assistere a un’esercitazione reale di allarme: promessa mantenuta in circostanze impreviste ma altamente formative per il comando.

Il 5° Battaglione Paracadutisti allestì due strutture controcarro con missili MILAN, una delle quali integrata con una compagnia paracadutisti americana armata di Tow, posta sotto il controllo tattico italiano. Il coordinamento operativo era rafforzato dalla presenza presso il posto comando del battaglione di un Nucleo USA per la Coordinazione del Fuoco, in grado di richiedere il supporto aereo da unità terrestri o navali. Il teatro operativo, costituito da vaste pianure aride e prive di vegetazione, ricordava in modo suggestivo il deserto egiziano di El Alamein, con un paesaggio che si prestava alle modalità operative tipiche della “Folgore”. Anche nei periodi di rotazione in “riposo”, le compagnie paracadutiste continuavano a operare nei campi profughi, mantenendo un alto standard di impegno e coesione. Gli Incursori garantivano la sicurezza nelle aree non presidiate, svolgendo un’opera silenziosa e costante di osservazione e intelligence, mentre i Carabinieri del “Tuscania” controllavano i flussi lungo l’arteria Zakho-Baghdad, esposti a un potenziale altissimo di minacce e traffico di armi.

L’ospedale da campo, gestito dal personale sanitario italiano, si trovò ad affrontare condizioni sanitarie complesse e spesso inedite per la medicina militare italiana dell’epoca. Traumi da esplosione, ferite da mina e patologie da conflitto erano all’ordine del giorno. L’adattamento degli strumenti e dell’ambiente operativo fu continuo e creativo, fino al punto di modificare un trapano elettrico da ferramenta per eseguire un delicato intervento chirurgico sul viso di un bambino. La dedizione di medici e paramedici italiani lasciò un’impressione profonda nei curdi: un medico locale, legato ai peshmerga, giunto in visita, si commosse constatando la qualità e l’umanità del lavoro svolto. A completamento dell’azione sanitaria furono organizzati nuclei mobili composti da medico, ambulanza e scorta armata di Incursori, che raggiungevano anche insediamenti remoti e fuori dal settore di competenza.

La Compagnia Genio della “Folgore” operava ininterrottamente nei campi profughi, costruendo strutture e impianti indispensabili. La sua presenza sin dai primi giorni rappresentò un potenziamento decisivo delle capacità operative della TF. Il lavoro dei genieri non si limitava alle infrastrutture nei campi ma si estendeva all’intera base Italpar e oltre, spesso in contesti a elevato rischio, minati dalla presenza di esplosivi, da tensioni tra fazioni curde e da infiltrazioni irachene. Non era raro che si verificassero scontri a fuoco notturni nei pressi della base, che pur non coinvolgendo direttamente Italpar, costituivano un serio fattore di rischio.

In assenza di assetti dedicati all’intelligence, Italpar adottò soluzioni ingegnose e audaci. Due Incursori riuscirono a stabilire un contatto diretto con il capo locale dei peshmerga, gettando le basi per una collaborazione efficace e continuativa. Il generale Gardner, informato dell’iniziativa, ne autorizzò lo sviluppo. Il comandante di Italpar, in segno di rispetto e determinazione, scelse di incontrare il capo curdo nel suo stesso posto comando, affermando simbolicamente la volontà italiana di operare apertamente e senza timori. Tale atto, insieme alla visibile azione quotidiana dei reparti, contribuì a cementare un rapporto di fiducia con le autorità locali e a facilitare la sicurezza nel settore. In segno di gratitudine, al termine della missione, i peshmerga schierarono una formazione d’onore per salutare Italpar al confine.

Numerosi episodi vivificano la memoria della missione. Un maresciallo della “Folgore”, benché adibito a mansioni d’ufficio, si presentò con lo zaino pronto per partire, desideroso di non essere escluso. Un paracadutista, interrogato da un giornalista sulla possibilità di adempiere alla missione, rispose con sobrietà e fierezza: “Se i nostri comandanti ci hanno portati qui, vuol dire che possiamo farcela.” Un’esercitazione a fuoco non autorizzata da parte di un tenente dei Marines provocò un immediato allarme tra i capisaldi italiani, risolto solo grazie alla prontezza di una pattuglia del “Col Moschin”. L’episodio confermò, però, la perfetta efficienza del dispositivo operativo italiano.

Nel corso delle loro attività, i genieri recuperarono una colonna di mezzi iracheni distrutti, trovandovi concertine intatte, provvidenziali per il rafforzamento difensivo. A missione quasi conclusa, persino gli addetti ai servizi di base cuochi, meccanici, scrivani chiesero di partecipare a una pattuglia operativa, desiderosi di condividere l’esperienza bellica e simbolica della “Folgore”. Equipaggiati e accompagnati da personale esperto, partirono all’alba per una marcia armata, rientrando esausti ma entusiasti e celebrando la sera stessa con un pasto cucinato da loro stessi.

Il generale statunitense John Shalikashvili, comandante dell’Operazione “Provide Comfort”, e il generale Gardner, comandante della Task Force “Bravo”, espressero un plauso pieno e convinto al comportamento e ai risultati conseguiti da Italpar, che godette anche dell’apprezzamento profondo della popolazione curda. Italpar incarnò, in quel frangente, un esempio raro di efficienza operativa, abnegazione umanitaria e dignità militare.

     Roberto Marchetti

Fonte: Franco Monticone – analisidifesa.it

Italcon Libano 2

Italcon Libano 2

Nel settembre 1982 l’Italia diede avvio alla missione Italcon Libano 2, il primo grande impiego all’estero della Brigata Paracadutisti Folgore dal secondo dopoguerra, che avrebbe segnato in modo profondo l’identità operativa delle Forze Armate italiane e, in particolare, del comparto militare d’élite. L’intervento avvenne nel quadro della Forza Multinazionale di Pace schierata in Libano per contenere le drammatiche conseguenze della guerra civile e dell’invasione israeliana. La missione costituì la risposta occidentale alla crisi esplosa con la Prima Guerra del Libano, scatenata il 6 giugno 1982 dalle Forze di Difesa Israeliane (FDI) con l’Operazione Pace in Galilea, ufficialmente in reazione all’attentato dell’organizzazione al-Fath contro l’ambasciatore israeliano nel Regno Unito, Shlomo Argo. L’invasione mirava a respingere la presenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel sud del Paese, contrastare l’influenza siriana, e facilitare l’instaurazione di un governo centrale forte, legato soprattutto alla componente cristiano-maronita della società libanese.

Il contesto operativo era drammatico. La capitale Beirut era contesa tra milizie palestinesi, fazioni cristiane legate alle Falangi Libanesi e ai clan politici tradizionali (tra cui quelli degli ex-presidenti Camille Shaʿmūn e Sulaymān Frānjiyye), e i contingenti israeliani che si erano spinti fino a occupare Beirut Ovest. A rendere ancora più tesa la situazione fu l’assassinio, il 14 settembre 1982, del neo-presidente eletto Bashir Gemayel, ex capo delle Falangi, evento che innescò il massacro nei campi profughi di Sabra e Shatila, dove le milizie cristiane filo-israeliane guidate da Elie Hobeika uccisero centinaia di civili palestinesi, sotto l’occhio inerte dell’esercito israeliano. Tale eccidio, unito alla violazione delle garanzie offerte ai profughi palestinesi da Philip Habib, inviato del presidente USA Ronald Reagan, rese improrogabile il ritorno delle forze multinazionali, tra cui l’Italia, con una nuova configurazione più solida e duratura: Italcon Libano 2.

La missione italiana fu avviata il 20 settembre 1982, quando le navi da sbarco Grado e Caorle, cariche di blindati del Battaglione San Marco al comando del capitano di fregata Pierluigi Sambo, salparono verso le coste libanesi, scortate dalla fregata Perseo. Le operazioni logistiche vennero supportate dai traghetti Canguro Bianco, Buona Speranza e Staffetta Jonica, quest’ultima proveniente da Cipro con a bordo il primo nucleo avanzato di Incursori del 9º Battaglione d’assalto paracadutisti “Col Moschin”, giunti sull’isola grazie a un ponte aereo dell’Aeronautica Militare. Il 24 settembre 1982 il contingente italiano, guidato dal Colonnello Franco Angioni, sbarcò a Beirut con circa un migliaio di uomini, compresi paracadutisti, incursori, marò e logisti. Con il tempo, l’organico raggiunse le 2.300 unità e Angioni fu promosso Generale di brigata.

Tra i compiti più difficili assegnati al contingente italiano vi furono la messa in sicurezza della fascia periferica che collegava l’aeroporto al centro della capitale, una zona densamente popolata da rifugiati palestinesi e martoriata dai massacri precedenti; la disattivazione di mine antiuomo, le scorte a personale politico e civile, e le attività di pattugliamento in un ambiente estremamente ostile. In aggiunta, fu costruito un ospedale da campo nei pressi dell’aeroporto di Beirut, dove venivano curati indistintamente civili e combattenti di ogni fazione. Questo presidio sanitario contribuì in modo decisivo a guadagnare la fiducia della popolazione e a legittimare la presenza italiana come realmente imparziale.

Il comando italiano si caratterizzò per un’impostazione originale e profondamente umana. Il metodo Angioni puntava a comprendere la cultura locale, distribuendo ai soldati testi esplicativi e promuovendo un approccio di prossimità con la popolazione. Tale strategia si dimostrò vincente in un contesto dove altri contingenti stranieri, come quello francese e statunitense, pagarono un tributo altissimo in vite umane a causa di gravi attentati: il 23 ottobre 1983 un duplice attacco suicida colpì le basi di Marines e legionari, provocando la morte di 241 militari americani e 56 francesi. L’Italia, pur non essendo risparmiata da scontri armati, riuscì a contenere le perdite, anche grazie alla propria capacità di mediazione sul terreno.

La Brigata Folgore, colonna vertebrale del contingente terrestre, operò alternando i suoi battaglioni in turni semestrali: 1º Battaglione Carabinieri Paracadutisti “Tuscania” (settembre 1982 – marzo 1983), 2° Battaglione Paracadutisti “Tarquinia” (marzo – luglio 1983), 5° Battaglione Paracadutisti “El Alamein” (luglio – novembre 1983), e nuovamente il “Tuscania” fino al termine della missione. La forza terrestre venne integrata da reparti della Marina Militare, tra cui unità dotate di cannoni da 127/38 e 127/54 mm (Intrepido, Ardito, Audace, Perseo, Lupo, Sagittario, Orsa), che fornirono appoggio costante alla componente a terra in caso di peggioramento delle condizioni di sicurezza.

L’anno 1983 fu il più critico. Il 15 marzo, una pattuglia del Battaglione San Marco fu colpita da un’imboscata nei pressi del campo di Sabra, provocando quattro feriti. La notte stessa, il generale Angioni decise un’operazione di rastrellamento con gli Incursori del Col Moschin. Lo scontro che ne seguì fu particolarmente violento, con l’impiego da parte dei combattenti libanesi di armi controcarro e armi automatiche pesanti. Tre incursori italiani rimasero feriti, uno dei quali perse una gamba. Quella stessa notte, un veicolo in pattugliamento venne attaccato nei pressi del campo di Burj el-Barajneh: il sottocapo fuciliere Filippo Montesi, marò di leva del Battaglione San Marco, fu gravemente ferito e morì il 22 marzo 1983. Aveva appena diciannove anni. Fu l’unico caduto italiano della missione, che registrò in totale 75 feriti.

Nel settembre 1983, un bombardamento di artiglieria da parte delle milizie druse dirette contro i quartieri cristiani colpì accidentalmente un deposito di munizioni del 5° Battaglione Paracadutisti “El Alamein”, provocando tre feriti. L’apice della tensione in Libano coincise dunque con una fase in cui la Forza Multinazionale fu oggetto di pressioni crescenti da parte di tutte le milizie armate, in un quadro strategico completamente instabile.

L’esperienza in Libano lasciò un segno profondo anche nella memoria civile italiana. La scrittrice e giornalista Oriana Fallaci, presente a Beirut durante la missione, ne trasse ispirazione per il suo romanzo “Insciallah”, pubblicato nel 1990. Il titolo arabo (“Se Dio vuole”) sintetizza l’impotenza e il fatalismo di chi si trova immerso in un conflitto senza logica apparente. Tra i protagonisti del libro, ricavati da figure reali, vi è anche Paolo Nespoli, allora giovane incursore del Col Moschin, futuro astronauta dell’Agenzia Spaziale Europea.

Nel febbraio 1984 venne avviata la fase di rientro. L’11 febbraio la nave Caorle trasferì a Cipro i civili italiani, mentre il 20 febbraio fece rientro in patria la squadra navale sotto il comando dell’ammiraglio Giasone Piccioni, composta da Vittorio Veneto, Doria, Ardito, Audace, Orsa, Perseo, Sagittario, Stromboli e Caorle, oltre ai traghetti civili Anglia e Jolly Arancione e alle motonavi Appia e Tiepolo. Le navi Doria, Sagittario e Caorle rimasero per un breve periodo ancora nel teatro operativo. Il 6 marzo 1984 rientrò in Italia anche l’ultima compagnia del 1° Battaglione Carabinieri Paracadutisti “Tuscania”, sancendo ufficialmente la fine della missione.

L’operazione Italcon Libano 2 si chiuse con un bilancio operativo che incluse una perdita umana, 75 feriti, centinaia di mine disinnescate, migliaia di pazienti curati, e un’eredità morale che avrebbe influenzato profondamente tutte le missioni italiane successive nei Balcani, in Medio Oriente e in Africa. Alla memoria del marò Filippo Montesi, originario di Fano, vennero intitolati numerosi luoghi nella sua città e a Barile, in provincia di Potenza, nonché il gruppo locale dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia. L’eco dell’impegno italiano in Libano, incarnato nella figura del piccolo Mustapha Haoui, salvato e adottato simbolicamente dal contingente, emigrato in Italia e diventato in seguito tecnico di laboratorio all’Istituto Regina Elena di Roma, rimane una delle testimonianze più toccanti della vocazione umanitaria e professionale delle Forze Armate italiane in missione

     Roberto Marchetti

Fonte: brigatafolgore.net

Operazione C3

Operazione C3

L’Operazione C3, nota anche con il nome tedesco di Unternehmen Herkules, fu una delle più ambiziose e articolate operazioni militari mai pianificate dalle potenze dell’Asse nel corso della seconda guerra mondiale. Essa rappresentò il tentativo strategico di strappare Malta al controllo britannico, trasformando l’isola nel fulcro della potenza aeronavale dell’Asse nel Mediterraneo. Fin dall’entrata in guerra dell’Italia nel giugno 1940, la centralità di Malta per il controllo del traffico navale tra l’Italia e il Nordafrica rese la sua conquista un obiettivo primario per lo Stato Maggiore italiano. Situata in una posizione geografica di straordinaria rilevanza, Malta divenne la base operativa da cui le forze alleate lanciavano attacchi aerei e navali contro i convogli dell’Asse diretti in Libia. L’idea di conquistare l’isola fu inizialmente presa in considerazione già nel 1940, dopo la caduta della Francia. Si valutò l’impiego di una forza di circa 20.000 uomini, con sbarchi concentrati al centro dell’isola e sull’isola di Gozo, supportati da unità corazzate. Tuttavia, Mussolini, temendo le presunte fortificazioni britanniche e sopravvalutando la resistenza dell’isola, ritenne che un’invasione avrebbe comportato un rischio eccessivo, preferendo allora affidarsi a una campagna di assedio e bombardamenti.

Il progetto venne ripreso e concretamente elaborato a partire dal marzo 1942, in un momento in cui la situazione strategica nel Mediterraneo appariva favorevole all’Asse. Il Comando Supremo italiano, con la partecipazione di ufficiali tedeschi tra cui il generale Ramcke e sotto la supervisione della Luftwaffe, cominciò la preparazione dell’operazione. Il piano prevedeva una duplice azione: una prima fase aviotrasportata e una seconda via mare, supportata da un massiccio bombardamento aereo preparatorio. Nella conferenza di Klessheim del 29-30 aprile 1942, Hitler e Mussolini ratificarono ufficialmente l’operazione, stabilendo che essa avrebbe avuto luogo successivamente alla prevista offensiva italo-tedesca in Nordafrica, mirante alla conquista di Tobruk. Una volta completata questa operazione e liberate le forze aeree, esse sarebbero state trasferite in Sicilia per partecipare all’attacco a Malta. La preparazione navale fu affidata alla Forza Navale Speciale della Regia Marina, già costituita nel 1940 per uno sbarco in Corsica, e posta sotto il comando dell’ammiraglio Vittorio Tur. La flotta includeva 19 navi da trasporto, 270 mezzi da sbarco, una cinquantina di unità minori e una scorta composta da una trentina di siluranti. Queste forze avrebbero dovuto trasportare circa 62.000 uomini, 1.600 veicoli e 700 pezzi d’artiglieria.

L’imponente forza d’invasione italiana era composta da un insieme eterogeneo e numericamente imponente di unità. Tra le divisioni coinvolte vi erano la 80ª Divisione di fanteria “La Spezia”, la 20ª “Friuli”, la 4ª “Livorno”, la 1ª “Superga”, la 26ª “Assietta” e la 54ª “Napoli”, ciascuna dotata di reggimenti di fanteria e artiglieria. Alle divisioni regolari si aggiungevano unità specializzate: il Reggimento San Marco della Regia Marina, battaglioni camicie nere da sbarco della MVSN, i paracadutisti della 185ª Divisione “Folgore”, i guastatori, un battaglione di riattatori della Regia Aeronautica, e perfino centurie di volontari del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco. La dimensione dell’operazione trovava riscontro nella sua complessità logistica: mezzi da sbarco tedeschi e italiani, navi da guerra, alianti e aerei da trasporto avrebbero dovuto operare in sincronia sotto l’ombrello protettivo dell’aviazione dell’Asse. Le truppe tedesche previste includevano il potente XI. Fliegerkorps, con la 7. Flieger-Division, la brigata paracadutisti Ramcke, e i reggimenti Fallschirmjäger 2 e 5, oltre a unità corazzate e scuole d’addestramento, per un totale di nove battaglioni di paracadutisti.

La strategia di invasione prevedeva due fasi principali: dapprima, un bombardamento aereo massiccio avrebbe dovuto colpire le difese britanniche e preparare il terreno per l’atterraggio simultaneo di centinaia di alianti e aerei da trasporto carichi di paracadutisti italiani e tedeschi, con il compito di occupare posizioni strategiche e neutralizzare le postazioni chiave della resistenza britannica; successivamente, due gruppi da sbarco principali, con un totale di 7.000 militari italiani, sarebbero sbarcati in due punti distinti dell’isola per costituire teste di ponte da cui far affluire rinforzi e consolidare il controllo del territorio. La presenza navale italiana, schierata nei porti di Messina, Reggio, Augusta, Napoli e Cagliari, avrebbe garantito l’appoggio continuo e la protezione delle rotte marittime contro possibili interventi britannici. A sostegno dell’invasione fu persino progettato l’utilizzo di autoscale dei vigili del fuoco montate su posamine, in grado di aggirare le difese costiere e facilitare l’accesso dei soldati.

Un elemento meno noto ma emblematico della preparazione fu l’addestramento e l’arruolamento di un piccolo gruppo di irredentisti maltesi che, emigrati in Italia o espulsi dal governo britannico, furono inquadrati come guide da sbarco. Uno di loro, Carmelo Borg Pisani, venne infiltrato a Malta nella notte tra il 17 e il 18 maggio 1942 per compiere attività di sabotaggio e raccolta informazioni, ma fu scoperto, catturato e infine impiccato dalle autorità britanniche. Nonostante l’enorme dispiegamento di forze e risorse, l’operazione non fu mai realizzata. La ragione principale risiedette nel mutare repentino degli equilibri bellici nel teatro nordafricano. Dopo i successi iniziali dell’offensiva di Rommel nel maggio-giugno 1942, culminati con la caduta di Tobruk il 21 giugno, Hitler concesse al generale tedesco l’autorizzazione a proseguire l’avanzata verso l’Egitto, sottraendo così uomini e mezzi destinati all’invasione di Malta. Malgrado la contrarietà del feldmaresciallo Kesselring, l’operazione venne rimandata ai mesi successivi. Tuttavia, con l’inizio della controffensiva alleata, in particolare con lo sbarco in Nordafrica durante l’operazione Torch e la definitiva perdita di Tobruk l’11 novembre 1942, ogni prospettiva di invasione di Malta venne definitivamente abbandonata.

L’Operazione C3 rimase, dunque, uno dei più emblematici progetti militari non realizzati del secondo conflitto mondiale, un piano che, se attuato, avrebbe potuto alterare sensibilmente l’andamento della guerra nel Mediterraneo. La sua mancata esecuzione testimoniò i limiti strategici e logistici delle potenze dell’Asse e la loro incapacità di coordinare in tempi utili uno sforzo congiunto su vasta scala, in un contesto in cui le decisioni erano spesso subordinate all’iniziativa tattica dei singoli comandanti e alle contingenze del fronte africano.

     Roberto Marchetti

Fonte: wikipedia.org

Guerra italo-turca

Guerra Italo – turca

Nel contesto storico del primo decennio del Novecento, la guerra italo-turca del 1911-1912 rappresenta un momento cruciale nel processo di espansione coloniale dell’Italia e segna una transizione importante nella configurazione geopolitica del Mediterraneo. La genesi del conflitto affonda le radici in una serie di fattori politici, economici e strategici maturati nel tempo. Dopo il trauma nazionale causato dalla sconfitta in Abissinia nel 1896, l’Italia aveva evitato ogni coinvolgimento espansionistico; tuttavia, il crescente benessere interno e l’emergere di un’opinione pubblica favorevole alla colonizzazione—alimentata dall’Associazione Nazionalista e dalla retorica del “posto al sole”—portarono alla ripresa delle aspirazioni imperiali, con la Libia come obiettivo principale. Il risorgere della questione marocchina e le relative modifiche dell’equilibrio mediterraneo a sfavore dell’Italia rafforzarono tale orientamento. La Libia, ultimo territorio dell’Africa mediterranea ancora sotto il controllo ottomano, divenne così oggetto di interesse strategico, non solo per la sua posizione ma anche per il timore di un’espansione tedesca, legata ai progetti ferroviari transsahariani. L’Italia, dopo aver ottenuto rassicurazioni da Francia e Inghilterra circa il loro disinteresse nella regione, colse l’occasione di un incidente diplomatico nel settembre 1911 per dichiarare guerra all’Impero Ottomano il 29 dello stesso mese. Le potenze europee reagirono con malumore, ma senza ostacolare concretamente l’impresa italiana. La Turchia, dal canto suo, pur avendo rafforzato militarmente la Libia, si trovò in inferiorità navale e logistica e adottò una difesa passiva, confidando forse in un intervento internazionale a proprio favore. L’Italia predispose un corpo di spedizione di 34.000 uomini, sotto il comando del generale Carlo Caneva, ma le previsioni secondo cui la popolazione indigena sarebbe rimasta neutrale si rivelarono tragicamente errate. Fin dai primi giorni, le tribù libiche si unirono attivamente alla resistenza, organizzate in mehalla irregolari sotto il coordinamento di ufficiali turchi, costringendo l’Italia a mobilitare progressivamente circa 200.000 uomini. Le prime operazioni videro lo sbarco e la rapida conquista delle principali città costiere—Tripoli, Tobruk, Derna, Bengasi, Homs—ma la presenza ostile delle popolazioni locali e la guerriglia organizzata impedirono una stabilizzazione immediata del territorio. A Tripoli, la necessità di garantire la sicurezza dell’oasi di Tagiura condusse all’occupazione strategica di Ain Zara. Analoga fu l’esperienza a Homs, dove furono occupate le alture di Ras el-Mèrgheb e le rovine di Leptis. A Bengasi, notevole fu la battaglia delle “Due Palme”, nella quale le forze italiane riuscirono a respingere un attacco di Beduini guidati da ufficiali turchi. La città di Derna, situata in posizione difficile da difendere, fu teatro di aspri combattimenti, con la leadership nemica affidata al carismatico Enver Bey; solo a settembre 1912, con l’occupazione di Sidi Abdalla, la piazza fu completamente sistemata. Nel frattempo, la marina militare italiana svolgeva un ruolo fondamentale nel garantire il dominio del mare, scortare i convogli e colpire obiettivi nemici: memorabile fu la penetrazione di torpediniere italiane nello stretto dei Dardanelli fino a Kilid Bahr, in un’audace missione guidata dal capitano Enrico Millo. Altra operazione navale rilevante fu quella nel Mar Rosso, dove furono bombardati porti e catturate navi ottomane, assicurando all’Italia il controllo delle vie marittime. L’occupazione del Dodecaneso, con lo sbarco e la conquista di Rodi e delle altre isole dell’Egeo, fu pensata per colpire l’Impero Ottomano nel prestigio e ottenere vantaggi negoziali nelle trattative di pace. Anche in questo caso, la marina ebbe un ruolo decisivo, mentre l’esercito conquistava l’isola attraverso una manovra accerchiante e un combattimento decisivo a Psito. Con il consolidamento delle posizioni lungo tutta la fascia costiera libica, da Ras el-Màchbez a Tobruch, e con la creazione di una base avanzata a Misurata, l’Italia poteva ritenere raggiunti i principali obiettivi strategici. Tuttavia, l’espansione verso l’interno del territorio richiedeva una riorganizzazione delle forze e delle strategie, portando alla decisione di rendere autonome le due regioni libiche, Tripolitania e Cirenaica, con comandi militari separati. Sul fronte diplomatico, la guerra si protrasse ben oltre le aspettative iniziali. Nonostante le difficoltà e l’evidente superiorità italiana, la Turchia si mostrava riluttante ad accettare una sconfitta formale. Solo con l’esplosione della crisi balcanica e l’imminente attacco delle potenze slave all’Impero Ottomano, il governo turco si decise a negoziare la pace. I colloqui, riaperti a Ouchy, portarono alla firma del trattato di Losanna il 18 ottobre 1912. L’accordo, per salvare la faccia dell’Impero Ottomano, prevedeva un riconoscimento implicito, ma non esplicito, della sovranità italiana sulla Libia. Il sultano manteneva formalmente la sua autorità religiosa sulle popolazioni musulmane, mentre l’Italia assumeva il pieno controllo politico e militare del territorio. Le trattative furono condotte da esponenti italiani come Pietro Bertolini, Giuseppe Volpi e Giuseppe Fusinato, i quali interpretarono in modo ottimistico e forse ingenuo il ruolo simbolico del sultano come califfo, sottovalutando l’impatto duraturo che la sua influenza spirituale avrebbe avuto sulla resistenza locale nei decenni successivi.

     Roberto Marchetti

Fonte: treccani.it

La Battaglia di El-Alamein

La Battaglia di El-Alamein

La Battaglia di El-Alamein si svolse nel deserto egiziano tra il 23 ottobre e il 4 novembre 1942, costituendo un punto di svolta cruciale nella campagna del Nord Africa durante la Seconda Guerra Mondiale. Fu il risultato di una lunga serie di scontri tra le forze dell’Asse, guidate dal feldmaresciallo tedesco Erwin Rommel, e l’Ottava Armata britannica, comandata dal generale Bernard Montgomery. Il teatro operativo si estendeva lungo una linea difensiva tra la costa del Mediterraneo e la depressione di Qattara, un’area che impediva ampi movimenti di aggiramento e forzava lo scontro diretto tra le forze avversarie.

Dopo le iniziali vittorie dell’Asse in Nord Africa, culminate con l’offensiva di Rommel nella primavera-estate del 1942, le forze italo-tedesche avanzarono fino a pochi chilometri da Alessandria d’Egitto, minacciando il controllo britannico del Canale di Suez e delle rotte petrolifere del Medio Oriente. Tuttavia, l’avanzata dell’Afrikakorps si arrestò a causa dell’allungamento delle linee di rifornimento e dell’efficace resistenza britannica. La prima battaglia di El-Alamein, combattuta tra luglio e agosto, bloccò l’offensiva dell’Asse, consentendo agli Alleati di riorganizzarsi e rafforzare le proprie forze con nuovi mezzi e uomini inviati dal Regno Unito e dagli Stati Uniti.

Il piano offensivo di Montgomery prevedeva un attacco frontale lungo tutto il fronte, combinato con un massiccio bombardamento d’artiglieria per logorare le difese nemiche. La battaglia iniziò nella notte del 23 ottobre con l’operazione Lightfoot, che vide un’intensa preparazione di fuoco con oltre 900 pezzi d’artiglieria britannici impegnati a colpire le postazioni dell’Asse. Le truppe alleate tentarono di sfondare il sistema difensivo tedesco-italiano, costituito da campi minati e linee fortificate, incontrando una dura resistenza. Rommel, nonostante le difficoltà logistiche e la scarsità di carburante, cercò di contenere l’avanzata nemica con le forze disponibili, ma la crescente superiorità materiale e numerica degli Alleati rese la difesa sempre più precaria.

Nei giorni successivi, i combattimenti proseguirono con intensità, mentre Montgomery modificò la sua strategia per concentrare le forze in un settore specifico del fronte. L’operazione Supercharge, lanciata il 2 novembre, vide un assalto decisivo che sfondò le difese dell’Asse, costringendo Rommel a ordinare la ritirata verso la Libia. La mancanza di rifornimenti e il continuo martellamento alleato resero impossibile una resistenza efficace, portando alla sconfitta definitiva delle forze dell’Asse in Egitto.

La vittoria britannica a El-Alamein segnò l’inizio della ritirata italo-tedesca dal Nord Africa, aprendo la strada alla successiva offensiva alleata che culminò con la conquista della Tunisia nel maggio 1943. Il successo di Montgomery consolidò il dominio britannico sul Medio Oriente e rafforzò il morale degli Alleati, rappresentando una delle prime grandi vittorie contro le forze dell’Asse. Rommel, pur considerato un abile stratega, non poté contrastare la crescente superiorità materiale alleata e fu costretto a ritirarsi in condizioni sempre più difficili. La battaglia di El-Alamein rimane uno degli scontri più significativi della Seconda Guerra Mondiale, determinando una svolta fondamentale nel teatro nordafricano e influenzando le successive operazioni militari alleate nel Mediterraneo.

     Roberto Marchetti

Fonte: wikipedia.org

Quel giorno a Macomer

Quel giorno a Macomer

«L’Unione Sarda», la lettera di Angelo Corti, pubblicata il 22 ottobre del 1983.

Fonte: econur.it