Provide Comfort
L’Operazione “Provide Comfort”, lanciata nel 1991 su mandato delle Nazioni Unite in risposta alla repressione della popolazione curda da parte del regime iracheno di Saddam Hussein, si configurò come una delle più complesse e delicate missioni umanitarie e militari del dopoguerra. Nel contesto della crisi umanitaria che seguì la guerra del Golfo e l’insurrezione fallita dei curdi nel nord dell’Iraq, l’intervento internazionale si prefiggeva di creare una zona di sicurezza e di assistenza per agevolare il rientro e la sopravvivenza dei profughi. In questo scenario nacque l’Operazione “Airone”, sotto l’egida del contingente interforze italiano Italfor, la cui componente operativa, denominata Italpar, fu protagonista di un impegno che seppe coniugare efficienza militare e sensibilità umanitaria.
A differenza delle altre componenti italiane dislocate presso la base di Incirlik in Turchia, Italpar fu l’unica unità di Italfor effettivamente presente nel Kurdistan iracheno, a Zakho, nell’area operativa della Task Force “Bravo”, comandata dal generale di divisione statunitense Gardner. Italpar, inoltre, operava sotto il controllo tattico diretto della TF “Bravo”, senza dipendere gerarchicamente dal Comando di Italfor. Il compito assegnato alla TF era quello di stabilire una cornice di sicurezza che favorisse il ritorno dei profughi curdi nelle loro regioni d’origine. Italpar divenne così l’elemento operativo cardine della presenza italiana in un teatro operativo tra i più complessi, tanto dal punto di vista logistico quanto da quello politico e militare.
La composizione di Italpar rifletteva una perfetta integrazione tra capacità offensive, logistiche e sanitarie. Le sue forze principali provenivano dalla Brigata Paracadutisti “Folgore”, comprendente il Comando, il 5° Battaglione “El Alamein”, il Reparto Logistico, una compagnia Genio, una compagnia Incursori del 9° Reggimento d’assalto paracadutisti “Col Moschin” e un plotone Carabinieri del Reggimento Paracadutisti “Tuscania”. A esse si aggiungeva una componente sanitaria della Brigata Alpina “Taurinense”, dotata di un Ospedale da Campo Aviotrasportabile e del supporto delle Infermiere Volontarie della Croce Rossa Italiana. Tale struttura composita garantiva l’autonomia operativa del contingente e la sua capacità di svolgere ogni tipo di attività prevista nel mandato della missione.
Giunti a Zakho, i paracadutisti italiani dovettero affrontare immediatamente condizioni ambientali estreme e criticità logistiche. La base, completamente da allestire, fu inizialmente installata sotto tende, in un’area priva di infrastrutture, esposta a temperature superiori ai 45 gradi e vulnerabile sotto il profilo tattico. La risposta a tale sfida fu pragmatica e decisa: utilizzando container abbandonati e carcasse di mezzi iracheni distrutti, venne eretto un bastione difensivo, rafforzato da decine di migliaia di sacchetti di sabbia e da una cinta perimetrale composta di concertine e bunker collegati, in un’architettura difensiva degna dei più tradizionali teatri di guerra del Novecento. Solo in seguito, e a seguito dell’autorizzazione del generale Gardner, Italpar poté trasferirsi in una base più sicura e funzionale.
Parallelamente ai lavori di allestimento, sin dai primi giorni, i reparti entrarono in azione. I paracadutisti installarono tende e infrastrutture nei campi profughi; gli alpini e il personale sanitario resero operativo l’ospedale da campo; gli Incursori affiancarono le truppe francesi nel recupero di profughi in zone montane; i carabinieri garantirono l’ordine pubblico e la sicurezza lungo le principali arterie stradali. In tutte queste attività, Italpar dimostrò non solo efficienza esecutiva ma anche una capacità proattiva di risposta alle esigenze del teatro operativo. La rapidità d’azione e la prontezza organizzativa conquistarono la fiducia del comando statunitense, inizialmente prudente verso la reale efficacia operativa del contingente italiano. Un aneddoto emblematico riguarda l’ispezione di un ufficiale della TF “Bravo” presso la base di Italpar, accolto con un bicchiere di vino e con la promessa che avrebbe potuto assistere a un’esercitazione reale di allarme: promessa mantenuta in circostanze impreviste ma altamente formative per il comando.
Il 5° Battaglione Paracadutisti allestì due strutture controcarro con missili MILAN, una delle quali integrata con una compagnia paracadutisti americana armata di Tow, posta sotto il controllo tattico italiano. Il coordinamento operativo era rafforzato dalla presenza presso il posto comando del battaglione di un Nucleo USA per la Coordinazione del Fuoco, in grado di richiedere il supporto aereo da unità terrestri o navali. Il teatro operativo, costituito da vaste pianure aride e prive di vegetazione, ricordava in modo suggestivo il deserto egiziano di El Alamein, con un paesaggio che si prestava alle modalità operative tipiche della “Folgore”. Anche nei periodi di rotazione in “riposo”, le compagnie paracadutiste continuavano a operare nei campi profughi, mantenendo un alto standard di impegno e coesione. Gli Incursori garantivano la sicurezza nelle aree non presidiate, svolgendo un’opera silenziosa e costante di osservazione e intelligence, mentre i Carabinieri del “Tuscania” controllavano i flussi lungo l’arteria Zakho-Baghdad, esposti a un potenziale altissimo di minacce e traffico di armi.
L’ospedale da campo, gestito dal personale sanitario italiano, si trovò ad affrontare condizioni sanitarie complesse e spesso inedite per la medicina militare italiana dell’epoca. Traumi da esplosione, ferite da mina e patologie da conflitto erano all’ordine del giorno. L’adattamento degli strumenti e dell’ambiente operativo fu continuo e creativo, fino al punto di modificare un trapano elettrico da ferramenta per eseguire un delicato intervento chirurgico sul viso di un bambino. La dedizione di medici e paramedici italiani lasciò un’impressione profonda nei curdi: un medico locale, legato ai peshmerga, giunto in visita, si commosse constatando la qualità e l’umanità del lavoro svolto. A completamento dell’azione sanitaria furono organizzati nuclei mobili composti da medico, ambulanza e scorta armata di Incursori, che raggiungevano anche insediamenti remoti e fuori dal settore di competenza.
La Compagnia Genio della “Folgore” operava ininterrottamente nei campi profughi, costruendo strutture e impianti indispensabili. La sua presenza sin dai primi giorni rappresentò un potenziamento decisivo delle capacità operative della TF. Il lavoro dei genieri non si limitava alle infrastrutture nei campi ma si estendeva all’intera base Italpar e oltre, spesso in contesti a elevato rischio, minati dalla presenza di esplosivi, da tensioni tra fazioni curde e da infiltrazioni irachene. Non era raro che si verificassero scontri a fuoco notturni nei pressi della base, che pur non coinvolgendo direttamente Italpar, costituivano un serio fattore di rischio.
In assenza di assetti dedicati all’intelligence, Italpar adottò soluzioni ingegnose e audaci. Due Incursori riuscirono a stabilire un contatto diretto con il capo locale dei peshmerga, gettando le basi per una collaborazione efficace e continuativa. Il generale Gardner, informato dell’iniziativa, ne autorizzò lo sviluppo. Il comandante di Italpar, in segno di rispetto e determinazione, scelse di incontrare il capo curdo nel suo stesso posto comando, affermando simbolicamente la volontà italiana di operare apertamente e senza timori. Tale atto, insieme alla visibile azione quotidiana dei reparti, contribuì a cementare un rapporto di fiducia con le autorità locali e a facilitare la sicurezza nel settore. In segno di gratitudine, al termine della missione, i peshmerga schierarono una formazione d’onore per salutare Italpar al confine.
Numerosi episodi vivificano la memoria della missione. Un maresciallo della “Folgore”, benché adibito a mansioni d’ufficio, si presentò con lo zaino pronto per partire, desideroso di non essere escluso. Un paracadutista, interrogato da un giornalista sulla possibilità di adempiere alla missione, rispose con sobrietà e fierezza: “Se i nostri comandanti ci hanno portati qui, vuol dire che possiamo farcela.” Un’esercitazione a fuoco non autorizzata da parte di un tenente dei Marines provocò un immediato allarme tra i capisaldi italiani, risolto solo grazie alla prontezza di una pattuglia del “Col Moschin”. L’episodio confermò, però, la perfetta efficienza del dispositivo operativo italiano.
Nel corso delle loro attività, i genieri recuperarono una colonna di mezzi iracheni distrutti, trovandovi concertine intatte, provvidenziali per il rafforzamento difensivo. A missione quasi conclusa, persino gli addetti ai servizi di base cuochi, meccanici, scrivani chiesero di partecipare a una pattuglia operativa, desiderosi di condividere l’esperienza bellica e simbolica della “Folgore”. Equipaggiati e accompagnati da personale esperto, partirono all’alba per una marcia armata, rientrando esausti ma entusiasti e celebrando la sera stessa con un pasto cucinato da loro stessi.
Il generale statunitense John Shalikashvili, comandante dell’Operazione “Provide Comfort”, e il generale Gardner, comandante della Task Force “Bravo”, espressero un plauso pieno e convinto al comportamento e ai risultati conseguiti da Italpar, che godette anche dell’apprezzamento profondo della popolazione curda. Italpar incarnò, in quel frangente, un esempio raro di efficienza operativa, abnegazione umanitaria e dignità militare.
Roberto Marchetti
Fonte: Franco Monticone – analisidifesa.it